Giorgio Manusakis – Napoliflash24 – Giornale di informazione su Napoli e Campania https://www.napoliflash24.it Napoliflash24: notizie di cronoca, attualità, politica, news, eventi, spettacoli, sport, calcio, cucina e lavoro. Segui il giornale della città di Napoli. Sun, 02 May 2021 23:46:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.7.2 Belisario Corenzio: il Greco di Napoli https://www.napoliflash24.it/belisario-corenzio-il-greco-di-napoli/ https://www.napoliflash24.it/belisario-corenzio-il-greco-di-napoli/#respond Mon, 03 May 2021 19:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=97025 Meno noto del suo contemporaneo El Greco, Corenzio è stato autore di numerosi capolavori napoletani A cavallo tra il XVI e il XVII secolo a Napoli operò il pittore Belisario Corenzio, anche noto come Il Greco per le sue origini elleniche, a cui è stato intitolata una strada del Vomero. Sebbene le sue opere non […]

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Meno noto del suo contemporaneo El Greco, Corenzio è stato autore di numerosi capolavori napoletani

Belisario Corenzio – Glorie della Casa Aragonese – Napoli, Palazzo Reale

A cavallo tra il XVI e il XVII secolo a Napoli operò il pittore Belisario Corenzio, anche noto come Il Greco per le sue origini elleniche, a cui è stato intitolata una strada del Vomero. Sebbene le sue opere non raggiunsero mai il livello del suo più celebrato e contemporaneo (oltre che conterraneo) El Greco, a lui dobbiamo molti affreschi di Palazzo Reale, della Certosa di San Martino, della chiesa di Santa Maria la Nova, di San Domenico Maggiore, del Gesù Nuovo e di molte altre chiese napoletane, oltre a numerose tele e disegni esposti al Museo di Capodimonte, ma anche in alcuni dei più famosi musei del mondo come il Metropolitan Museum di New York e il Louvre di Parigi.

Corenzio nacque in Grecia, nella regione dell’Acaia, nel 1558; circa la prima parte della sua biografia non vi è certezza, secondo alcune fonti sarebbe giunto in Italia dopo il 1540 stabilendosi a Venezia dove fu allievo del Tintoretto, per poi stabilirsi a Napoli nel 1590, ma è lo stesso pittore a smentire tale ipotesi affermando, in una sua dichiarazione rilasciata quando ormai si era ritirato, di essere giunto a Napoli all’età di dodici anni, il che fa decadere la possibilità che avesse effettuato un quinquennale apprendistato presso il Tintoretto. Quale che fu la sua formazione artistica, di certo fu influenzata dal maestro veneziano e dalla scuola toscana, entrambi gli elementi si ritrovano tanto negli affreschi quanto nei disegni. Giunto a Napoli Corenzio si affermò come pittore non solo per la qualità dei suoi lavori, ma anche per l’incredibile operosità che lasciava interdetti gli altri pittori e gli causò aspre critiche. Corenzio era famoso per avere un pessimo carattere e venne accusato di gesta molto deprecabili, finalizzate all’acquisizione di lavori. Si arrivò perfino ad insinuare che eliminasse fisicamente i suoi concorrenti e che avesse ucciso anche un suo allievo, Luigi Rodriguez. In realtà non solo quest’ultima nefandezza, ma anche molte altre che venivano raccontate su Corenzio, erano frutto di maldicenze e leggende che venivano divulgate dai suoi colleghi e concorrenti, i documenti giunti fino a noi attestano che Corenzio non fu mai processato né querelato e fu prosciolto anche dall’accusa di essere il mandate dell’aggressione a Guido Reni a seguito della quale il celebre pittore rinunciò alla commissione avuta di affrescare la cappella di San Gennaro nel duomo di Napoli. Va detto che in quel periodo gli artisti erano soliti ricorrere ai mezzi più subdoli e talvolta anche violenti pur di ottenere la commissione di un lavoro, e anche Corenzio non era da meno; a dir poco pessimi erano i rapporti tra lui e altri illustri pittori dell’epoca quali Guido Reni, Battistello Caracciolo e Ribera, per citarne alcuni. Corenzio rimase sempre profondamente legato alla comunità greca di Napoli, fu governatore della Confraternita dei ss.Pietro e Paolo dei Greci, di cui affrescò anche la volta della chiesa poi restaurata in stile rococò napoletano, e del sodalizio della nazione greca.

Belisario Corenzio – Affresco nella Sala Capitolare della Certosa di San Martino, Napoli

Sebbene molte delle sue opere siano andate perdute, numerosi dei suoi lavori più belli sono oggi visibili a Napoli; più in particolare, a Palazzo Reale si possono ammirare l’affresco della celebrazione dei fasti militari sulla volta del salone, sul soffitto della varie sale del palazzo possiamo apprezzare sei scomparti raffiguranti le glorie della casa aragonese, quattordici scomparti su cui sono rappresentate le celebrazioni dei fasti militari della casa reale spagnola e la Circoncisione; nella Certosa di San Martino, Corenzio ha firmato gli affreschi della Sala Capitolare e della cappella di Sant’Ugo, inoltre nel Quarto del Priore possiamo ammirare quattro tele raffiguranti i Putti, ma anche in molte chiese troviamo sue opere: nella chiesa del Gesù Nuovo, tra le tante opere del Corenzio, si possono ammirare Golia colpito da Davide, le Storie della Natività di Cristo e Paradiso e Santi Crocefissi; nella basilica della SS. Annunziata sue sono, tra le altre, la Visione di San Giovanni a Patmos, Storie del vecchio Testamento e Ascensione; nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli sono di Corenzio gli Apostoli, i Dottori, i Profeti e Santi, mentre a Santa Maria la Nova ha eseguito il Crocefisso, Il Giudizio Universale, la Nascita della Vergine, Storie della Passione, La Vergine del Soccorso e Santi. Ma tantissime sono le chiese di Napoli in cui sono presenti opere di Corenzio il quale ha lasciato alla nostra città un’enorme patrimonio artistico che tutto il mondo può ammirare. Secondo una leggenda Corenzio morì nel 1643 a Napoli, cadendo da un ponteggio nella chiesa dei SS. Severino e Sossio dove era tornato per correggere alcuni affreschi da lui eseguiti e criticati dai suoi colleghi che avevano notato degli errori, ma più verosimile appare la storia secondo cui il pittore morì nell’odierna Esperia, un paese del Frusinate, dove si era ritirato, ormai molto anziano, nel 1646.

Belisario Corenzio – Affresco della Sala Capitolare della Certosa di San Martino, Napoli

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Tesori di Napoli: Santa Maria del Pozzo, un gioiello ritrovato https://www.napoliflash24.it/tesori-di-napoli-santa-maria-del-pozzo-un-gioiello-ritrovato/ https://www.napoliflash24.it/tesori-di-napoli-santa-maria-del-pozzo-un-gioiello-ritrovato/#respond Sun, 02 May 2021 19:00:00 +0000 https://www.napoliflash24.it/?p=120450 Sotto il Vesuvio, precisamente a Somma Vesuviana, da secoli esiste un tesoro poco conosciuto dell’arte: il Complesso Monumentale di Santa Maria del Pozzo. Questo patrimonio del nostro territorio, tra le sue mura ci narra circa duemila anni di storia: infatti, passeggiando all’interno del complesso si attraversa lo splendido chiostro cinquecentesco, e scendendo nei sotterranei ci […]

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Sotto il Vesuvio, precisamente a Somma Vesuviana, da secoli esiste un tesoro poco conosciuto dell’arte: il Complesso Monumentale di Santa Maria del Pozzo. Questo patrimonio del nostro territorio, tra le sue mura ci narra circa duemila anni di storia: infatti, passeggiando all’interno del complesso si attraversa lo splendido chiostro cinquecentesco, e scendendo nei sotterranei ci si ritrova nella chiesa angioina, ma arrivando al pozzo saremo di fronte ad una costruzione di epoca romana. Il nucleo più antico del complesso è la chiesa voluta dal re di Napoli, Roberto d’Angiò, il quale la fece edificare nel 1333 a ricordo del matrimonio tra la sua nipote ed erede Giovanna I, ed Andrea d’Ungheria, figlio del re Carlo Umberto. Nel 1488 un’alluvione la danneggiò gravemente e solo all’inizio del 1500, per volontà di Giovanna III d’Aragona, fu costruito il complesso con una nuova chiesa (edificata sopra la vecchia e non in sostituzione della stessa) e annesso convento. L’intero complesso fu nuovamente ristrutturato e rimodernato dopo l’eruzione del Vesuvio, avvenuta nel maggio del 1737, così come riportano antiche testimonianze dei monaci che vissero tale evento. Non è chiaro il motivo dell’appellativo dato alla Madonna di questo complesso, in merito ci sono diverse ipotesi e tutte sono plausibili: potrebbe essere dovuto ad un pozzo nelle vicinanze, ad un affresco o ad un’antica raffigurazione della Madonna, ma anche al fatto che l’antica cappella fu interrata come un pozzo per sfuggire agli iconoclasti; invece, secondo altre ipotesi, sarebbe dovuto al ritrovamento dell’antica chiesa, che avvenne tramite una buca da cui si potevano ammirare gli affreschi della Madonna. Il cuore del complesso, la chiesa sotterranea, è anche l’elemento con più misteri e curiosità. Intanto a lei, e non alla chiesa superiore visibile dalla strada, è dovuto il nome del complesso; ma la cosa più interessante è che, nonostante la sua costruzione, come abbiamo detto, sia stata voluta dal re Roberto d’Angiò nel 1333, sull’abside sono visibili alcuni affreschi bizantineggianti di epoca precedente, inoltre la tradizione locale vuole che lì vi fosse un tempio dedicato a ‘Giove Summano’ trasformato in cappella all’inizio dell’era cristiana, come accaduto per moltissimi altri templi pagani. Tale ipotesi è rafforzata dalla presenza di due colonne monolitiche con capitelli corinzi posizionate a sostegno del portico della chiesa superiore, e non bisogna dimenticare che nella stessa località procedono ancora oggi gli scavi della presunta Villa di Augusto, quindi non si può escludere che provengano da quel sito o che risalgano alla stessa epoca. All’interno dello stesso complesso si trova anche il museo della civiltà contadina “Michele Russo”, una collezione privata di oltre 3200 utensili e attrezzature di uso domestico ancora perfettamente funzionanti, esposti nei cellai del convento e che possono essere visti attraverso dei percorsi pedagogici-didattici. Nel cortile esterno si trovano, a completamento dei percorsi, un orto, piccole stalle in legno e un antico fienile. All’interno del convento si trova anche un’interessante biblioteca che si compone di 684 volumi editi tra il 1480 ed il 1779 e provenienti da ogni parte d’Europa; i più preziosi sono custoditi presso il I Circolo Didattico, ma è anche la sala ad essere stimolante con la sua struttura cinquecentesca originale e la copertura in capriata lignea e coppi a doppia falda. E proprio nella biblioteca abbiamo intervistato il prof. Emanuele Coppola, direttore dei beni culturali del complesso di Santa Maria del Pozzo, il quale ci spiega brevemente, nel video che vedete in basso, perché e come visitare il complesso.

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Pietrararsa si racconta: dove nacquero le ferrovie italiane, ora c’è un museo che ci narra la sua storia https://www.napoliflash24.it/pietrararsa-si-racconta-dove-nacquero-le-ferrovie-italiane-ora-ce-un-museo-che-ci-narra-la-sua-storia/ https://www.napoliflash24.it/pietrararsa-si-racconta-dove-nacquero-le-ferrovie-italiane-ora-ce-un-museo-che-ci-narra-la-sua-storia/#respond Sat, 01 May 2021 19:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=104965 Lì dove nacquero le ferrovie italiane, ora c’è un museo che ci narra la sua storia Oggi i bambini si divertono a scorrazzare tra i miei sette padiglioni pieni di locomotive di ogni tipo, vagoni storici, carrozze reali, e tutti gli altri “giocattoli” che trovano nei miei 36.000 metri quadrati. Ma non non dovete pensare […]

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Lì dove nacquero le ferrovie italiane, ora c’è un museo che ci narra la sua storia

Oggi i bambini si divertono a scorrazzare tra i miei sette padiglioni pieni di locomotive di ogni tipo, vagoni storici, carrozze reali, e tutti gli altri “giocattoli” che trovano nei miei 36.000 metri quadrati. Ma non non dovete pensare che siano gli unici a divertirsi; i genitori che li accompagnano, soprattutto i papà, a volte sono più indisciplinati dei figli, e i vigilanti devono spesso richiamarli perché oltrepassano i limiti per vedere come sono fatte dentro le carrozze, o per salire su una locomotiva e cercare di capire com’era spalare carbone per far viaggiare un treno. Sapeste quante volte i genitori cercano di entrare nelle vecchie carrozze, ormai in disuso, su cui hanno viaggiato tanti anni fa portando con loro i sogni della giovinezza.

Se ancora non lo avete capito, io non sono una stazione ferroviaria, bensì un museo, il Museo Nazionale Ferroviario di Pietrarsa, così mi hanno chiamato quando fui inaugurato, il 7 ottobre del 1989, anno in cui le Ferrovie dello Stato festeggiavano il loro 150° anniversario. Chi viene a visitarmi non vede statue antiche, affreschi, quadri o le altre antichità che si trovano generalmente nei musei, ma vedrà qualcosa che difficilmente troverà altrove: tanti treni e vagoni di ogni genere. Una volta, però, non ero un museo. Dovete sapere infatti, che agli inizi dell’800 Napoli era all’avanguardia nel settore trasporti: nella città partenopea fu costruito il primo piroscafo del Mediterraneo e, proprio dove ora trovate i miei padiglioni, fu inaugurata la prima tratta ferroviaria d’Italia. Non dimenticherò mai quel giorno: era il 3 ottobre del 1839 e i due convogli percorsero i 7411 metri della tratta Napoli-Portici in 11 minuti. Fu così che nel 1840 il re Ferdinando II di Borbone, che intendeva liberarsi dalla supremazia tecnologica di Francia e Inghilterra, decise di far sorgere a Pietrarsa un’area industriale su cui fossero costruite locomotive a vapore, e fu proprio questa la mia prima destinazione col nome di Reale Opificio Borbonico di Pietrarsa. Centinaia di locomotive sono state costruite tra le mie mura, dal Piemonte arrivò il generale Alfonso La Marmora, inviato dal suo governo per studiarmi: anche al nord, più di mezzo secolo prima che nascesse la FIAT, volevano realizzare un opificio che mi somigliasse! In Russia, poi, lo zar Nicola I dispose che il complesso ferroviario di Kronstadt fosse costruito prendendo me quale modello! Lo ammetto, ero orgoglioso che l’Europa intera si fosse fermata a guardarmi stupita, ma quel periodo non durò a lungo. Già nel 1861, con l’Unità d’Italia, i piemontesi mi giudicarono non redditizio e volevano addirittura demolirmi. L’anno dopo fui ceduto alla ditta Bozza che ridusse il personale, causando scioperi e disordini finiti nel sangue: fu il 6 agosto 1863, durante uno sciopero, che i bersaglieri caricarono; in quei disordini vidi 7 morti e 20 feriti gravi, tutti uomini senza colpa il cui sangue era stato versato sul mio terreno. Sebbene il mio declino continuasse, la produzione di locomotive non si fermò e nel 1905 entrai a far parte delle neonate Ferrovie dello Stato. Furono le locomotive elettriche e poi quelle diesel che decretarono la mia fine, quel 15 novembre 1975, e si decise di farmi diventare un museo. Dopo l’inaugurazione fu deciso di ristrutturarmi, e così rimasi chiuso a lungo, fino al 19 dicembre 2007, giorno in cui, finalmente, le mie grandi porte furono aperte a tutti. Ora nei miei capannoni trovate una riproduzione del 1939 della celebre locomotiva Bayard, proprio quella che fece il viaggio inaugurale della prima tratta ferroviaria d’Italia, la Napoli-Portici; ma potete ammirare anche il favoloso treno reale del 1929, ben 11 carrozze costruite in occasione del matrimonio tra Umberto II di Savoia e Maria José del Belgio, e poi tantissime locomotive come la romantica “Cirillo” e la prestigiosa “480”, e anche l’ultima arrivata: la vettura presidenziale donatami nel 1989 dall’allora Presidente Cossiga. Ognuna di loro ha una storia da raccontarvi, ma questo, appunto, è un’altra storia!

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I musei si raccontano: Capodimonte https://www.napoliflash24.it/i-musei-si-raccontano-capodimonte/ https://www.napoliflash24.it/i-musei-si-raccontano-capodimonte/#respond Fri, 30 Apr 2021 19:00:00 +0000 https://www.napoliflash24.it/?p=135651 Da tenuta di caccia del re a museo nazionale, la Reggia di Capodimonte vi narra la sua storia Sono nato il 10 dicembre del 1738, quando, per volere del re di Napoli, Carlo di Borbone, fu posata la prima pietra di ciò che poi sarei diventato: la Reggia di Capodimonte! Il re intendeva farmi diventare […]

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Da tenuta di caccia del re a museo nazionale, la Reggia di Capodimonte vi narra la sua storia

Sono nato il 10 dicembre del 1738, quando, per volere del re di Napoli, Carlo di Borbone, fu posata la prima pietra di ciò che poi sarei diventato: la Reggia di Capodimonte! Il re intendeva farmi diventare la sua residenza di caccia, e così mi fece costruire in un fitto e grande bosco, ma sul versante più bello, perché dalle mie finestre voleva godere dello splendido panorama della città che dolcemente si adagia sul golfo di Napoli. Per la mia progettazione si affidò all’architetto palermitano Giovanni Medrano, mentre per farmi costruire chiamò il famoso Angelo Carasale; anni dopo i due costruirono anche il Teatro San Carlo. Il re, però, non sapeva dove custodire la sua immensa collezione d’arte ereditata dalla madre, Elisabetta Farnese, e il marchese de Salas, suo segretario di Stato, gli propose di custodirla tra le mie possenti mura. Fu così che, dopo circa vent’anni, a tenermi compagnia arrivarono quadri, porcellane, busti e altre inestimabili opere d’arte, formando il primo nucleo di ciò che sarei diventato: il Museo Nazionale di Capodimonte! In ventiquattro delle mie cinquantacinque stanze, furono esposti quadri di Raffaello e Tiziano, porcellane e biscuits preziose, e tanti altri tesori dell’arte. Vennero a farmi visita le più alte personalità di ogni tempo, dal marchese de Sade a Goethe, da Antonio Canova all’abate di Saint-Non. Ma non dovete credere che la mia storia sia sempre stata bella, vi assicuro che in circa quattro secoli ne ho passate di brutte giornate! Quelle dell’arrivo dei francesi a Napoli nel 1799, per esempio, furono giornate cruente e devastanti. Prima del loro arrivo, qualcuno fece due conti su quanto custodivo, trovando ben 1783 quadri; ma chi rifece i conti dopo il saccheggio francese ne contò soltanto 1458! Fu il re Ferdinando I di Borbone a salvare le opere più importanti, trasferendole a Palermo prima dell’arrivo dei francesi; e fu sempre lui, una volta tornato sul trono di Napoli, a dare disposizioni che quanto fu trafugato e venduto dai francesi a Roma, venisse recuperato. Purtroppo solo poche opere furono ritrovate, e riportate a Napoli nel nuovo museo allestito a Palazzo Francavilla, oggi Palazzo Cellammare. In quel periodo le mie mura servirono più come abitazione reale che come museo. Certo, arrivò la collezione Borgia nel 1817, ma fu anche ceduta la Collezione di Leopoldo di Borbone-Napoli e molte altre opere furono donate all’Unità degli Studi di Palermo. Quando l’Italia fu unita, continuai ad essere una residenza reale, anche se raramente i Savoia mi fecero visita, ma una parte di me restò museo. Nel 1864 potei fieramente esporre la Collezione di Armi Farnesiane e l’Armeria Borbonica, mentre nel 1866 fu trasferito tra le mie mura lo splendido Salottino in porcellana di Maria Amalia di Sassonia, originariamente posto nella Reggia di Portici. Successivamente arrivarono anche arazzi preziosi e, nel 1877, il grande pavimento in marmo ora nella sala 31, che fu rimosso da Villa Jovis a Capri per abbellire le mie camere. Fu in quello stesso anno che le mie stanze ospitarono una grandiosa festa per l’Esposizione Nazionale di Belle Arti e, sotto la direzione di Annibale Sacco, si avviò il progetto per arricchirmi con una Galleria di Arte Moderna con dipinti e sculture ottocentesche. Con l’inizio del XX secolo buona parte delle mie collezioni furono trasferite al Museo Archeologico Nazionale, e anche se ebbi l’onore di ospitare opere anche del Masaccio, molti dei miei quadri e dei miei preziosi tesori, andarono ad abbellire i palazzi istituzionali di Roma: Quirinale, Montecitorio e Madama; altri adornarono università e sedi di ambasciate italiane all’estero. Molte altre opere furono cedute a Parma e Piacenza, che ne richiedevano da molti anni la restituzione, dato che originariamente facevano parte della Collezione Farnese dei loro palazzi, e io mi ritrovai a vedere i duchi di Aosta girare tra le mie stanze, ormai diventate una loro abitazione. Poi scoppiò la Seconda guerra mondiale, e tutti i tesori custoditi nei musei di Napoli furono trasferiti nelle abazie prima di Cava dei Tirreni e poi di Montecassino. Alla fine del conflitto i duchi di Aosta lasciarono le mie stanze, e fu grazie alle pressioni di autorevoli personaggi come Benedetto Croce, che si decise che il Museo Nazionale Archeologico ospitasse solo le collezioni di antichità, mentre i dipinti furono trasferiti nuovamente tra le mie mura e allestiti sotto la direzione del museologo e storico dell’arte Bruno Molajoli. Lo stesso Molajoli curò anche i lavori della mia ristrutturazione, che iniziarono nel 1952 dopo che, nel 1949, fu firmato il decreto che sanciva la mia nascita, quella del Museo Nazionale di Capodimonte! Molajoli lavorò insieme a Ferdinando Bologna, Raffaello Causa e Ezio De Felice, e i loro allestimenti furono ammirati e presi a modello per la loro modernità e funzionalità. L’inaugurazione ebbe luogo il 1957 e l’anno successivo mi arricchì della Collezione De Ciccio prima, e poi di numerosi disegni e opere provenienti dalle chiese napoletane e trasferite da me affinché le custodissi. Dopo il terremoto del 1980 ebbi bisogno di nuove cure, e rimasi chiuso fino al 1995, quando riuscì ad esporre solo parte dei miei tesori, ma solo nel 1999 ho potuto riaprire tutte le mie stanze ai visitatori.

Oggi napoletani e turisti da tutto il mondo accorrono a Capodimonte per ammirare i miei quadri, le mie porcellane e i tanti tesori che volentieri espongo a chi ama l’arte. Li vedo entrare al piano terra, spesso la fila arriva fino ai giardini esterni, qualcuno si ferma alla caffetteria e poi lascia zaini e cappotti al guardaroba, prima di entrare nel bookshop e poi comprare i biglietti. A volte, quando ci sono concerti o conferenze, scendono nel mio seminterrato per raggiungere l’auditorium o, i più giovani, le due sale didattiche; in una delle due sale ospito spesso anche mostre temporanee. Quasi sempre, però, vedo i visitatori salire sullo scalone centrale guardando i busti e i marmi che lo abbelliscono, fino ad arrivare al piano ammezzato, dove trovano la collezione di manifesti dei Grandi Magazzini Mele, giunta a me solo nel 1988, e il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe. Lì si fermano e ammirano le migliaia di stampe, disegni preparatori e acquerelli di artisti celebri quali Tintoretto, Rembrandt, Annibale Carracci, Guido Reni, Giacinto Gigante e Jusepe de Ribera, solo per citarne alcuni; fanno parte di varie collezioni, giunte a me anche recentemente. Ma le sorprese che riservo ai visitatori del piano ammezzato non finiscono qui. Continuando a percorrere i miei corridoi, trovano un’esposizione allestita solo nel 2012: la collezione dell’Ottocento Privato, formata da quadri di Vincenzo Gemito, Anton Sminck van Pitloo, Domenico Morelli e tanti altri artisti del XIX e XX secolo.

Quando escono dal piano ammezzato, mentre salgono al primo piano li vedo parlare tra loro delle opere che più li hanno affascinati. Ma ciò che li attende li farà parlare ancora di più. Già nella sala 2 si trovano di fronte alla Collezione Farnese, e restano tutti ammirati davanti alle opere del Correggio, del Parmigianino, di Tiziano, del Botticelli, solo per citarne alcuni. Ma trovano anche alcune ‘chicche’: la sala 3, ad esempio, è interamente dedicata alla splendida Crocifissione opera del Masaccio, mentre nella sala 9 si trovano di fronte alla copia del Giudizio universale’, opera di Mercello Venusti, che permette di vedere com’era realmente il capolavoro che Michelangelo eseguì nella Cappella Sistina, prima che Daniele da Volterra ne coprisse le parti allora giudicate indecenti. Dovreste vederli come ammirano l’opera, sorpresi e un po’ perplessi! Poi proseguono tra le stanze del primo piano e scoprono i tesori della Collezione Borgia, quelli della Collezione De Ciccio, la Galleria delle Porcellane e, infine, l’Armeria Farnesiana e Borbonica, con i suoi cinquemila reperti: pistole, pugnali, armature da giostra e guerre, tra cui quella di Alessandro Farnese, e numerose spade, una delle quali sembra fosse appartenuta al famoso Ettore Fieramosca. Ma una parte del primo piano, è rimasta adibita ad appartamento reale. Li vedo curiosare tra gli antichi mobili della sala scritture, girarsi intorno nella sala da letto del re Francesco I e trattenere i bambini dal correre nella Sala delle feste, e poi fare la fila per vedere il Salottino di Porcellana della regina Maria Amalia.

Quando salgono le scale per arrivare al secondo piano, alcuni sono presi a discutere dei capolavori ammirati, ma altri hanno un fremito al cuore, perché già sanno cosa li attende nella sala 78: la ‘Flagellazione di Cristo’ del Caravaggio! In tanti vengono da me solo per vedere questo capolavoro, e non esitano neanche un minuto nel passare velocemente tra le sale, senza neanche dare uno sguardo ai numerosi altri reperti esposti! Eppure c’è la Galleria Napoletana con i suoi dipinti, le sculture e gli arazzi, e il capolavoro di Simone Martini, ‘San Ludovico di Tolosa che incorona il fratello Roberto d’Angiò’; ma anche opere di Luca Giordano, di Tiziano e tanti altri capolavori, fino ad arrivare alla collezione di arte contemporanea, che continua al terzo piano.

Ma sapete qual è la mia più grande soddisfazione? Vederli uscire tutti stanchi, ma con gli occhi che ancora brillano per i tanti capolavori che hanno ammirato e che non dimenticheranno più, anzi, chi può tornerà spesso da me per rivederli. Dite che sono presuntuoso? Io credo di essere stato perfino modesto nel descrivermi in queste righe, perché per raccontare bene tutta la mia storia e descrivere i tanti capolavori che custodisco e di cui non vi ho parlato, forse non basterebbe un libro. Ma c’è un solo modo per sapere se vi sbagliate oppure no: venite a visitarmi!

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Il mistero del Doriforo del MANN: intervista al prof. Vincenzo Franciosi https://www.napoliflash24.it/il-mistero-del-doriforo-del-mann-intervista-al-prof-vincenzo-franciosi/ https://www.napoliflash24.it/il-mistero-del-doriforo-del-mann-intervista-al-prof-vincenzo-franciosi/#respond Thu, 29 Apr 2021 19:00:00 +0000 https://www.napoliflash24.it/?p=137865 Napoliflash24 intervista l’archeologo napoletano autore del saggio in cui svela che la celebre statua, esposta al MANN, non è un Doriforo. Il prof. Vincenzo Franciosi è l’autore del saggio in cui si mette in discussione che la famosa statua, esposta al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e denominata ‘Doriforo di Policleto’, sia realmente un ‘Doriforo’, […]

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Napoliflash24 intervista l’archeologo napoletano autore del saggio in cui svela che la celebre statua, esposta al MANN, non è un Doriforo.

Il prof. Vincenzo Franciosi è l’autore del saggio in cui si mette in discussione che la famosa statua, esposta al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e denominata ‘Doriforo di Policleto’, sia realmente un ‘Doriforo’, ovvero un ‘portatore di lancia’. Precedentemente abbiamo pubblicato un articolo, che trovate a questo link https://www.napoliflash24.it/e-se-il-famoso-doriforo-esposto-al-mann-in-realta-fosse-teseo/, in cui si riassumevano le motivazioni e le prove che lo studioso partenopeo espose nel saggio, a supporto della sua tesi. La scoperta dell’archeologo napoletano, docente presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, scosse la comunità degli studiosi che, da secoli, aveva identificato la celebre scultura come una copia romana del Doriforo, attribuito al famoso scultore Policleto di Argo, vissuto in Grecia nel V secolo avanti Cristo. Ne abbiamo parlato con l’autore della scoperta e del saggio, il prof. Vincenzo Franciosi, per cercare di svelare gli altri misteri che ancora circondano quest’opera d’arte.

D: Prof. Franciosi, da dove nasce l’intuizione che questa famosissima statua, da sempre ritenuta un Doriforo, in realtà non lo fosse?

R: La ricostruzione dell’archetipo statuario del Doriforo quale giovane nudo che porta la lancia da guerra con la sinistra, mentre il braccio destro pende inerte lungo il fianco (si veda la riproposizione in bronzo di Georg Roemer), mi ha sempre provocato un senso di fastidio. Non mi convinceva un “canone” (n.d.r.: formula compositiva scultorea) mancino, né potevo accettare che un artista come Policleto, autore, per di più, di un trattato sulla simmetria, avesse concepito una figura del genere: a parte la pericolosità costituita dal calcio della lancia che sporge fuori dalla base ad altezza d’uomo, l’asta, bilanciata sulla spalla, viene a distruggere la composizione armonica e razionale dell’opera, creando una rottura dei piani e un senso spaziale impensabili per una scultura greca del V sec. a.C. Osservavo, poi, che la figura del Doriforo, a parte la caratteristica gravitazione su una sola gamba, si presentava identica a quella dei Bronzi di Riace: la posizione tipica di chi imbraccia lo scudo (sia detto per inciso: in greco classico le espressioni ‘epí dory’ – dalla parte della lancia – ed ‘ep’aspída’ – dalla parte dello scudo – si utilizzano per indicare rispettivamente la destra e la sinistra).

D: La prova che ha convinto tutti gli studiosi che la sua tesi fosse esatta, è stato il ritrovamento di tracce di ossidazione, dovute al bronzo, sul braccio sinistro, che testimoniano la presenza di uno scudo e non di una lancia. Può spiegare ai nostri lettori come mai ci sono voluti secoli per scoprirla?

R:“Tutti” non direi. La presenza dello scudo è un fatto incontrovertibile, ma c’è chi non vuole rinunciare al Doriforo proponendo di vedere nella sinistra della figura sia ‘l’antilabé’ (n.d.r.: l’impugnatura) dello scudo che l’asta della lancia, oppure chi, pur accettando la ricostruzione dell’archetipo con scudo nella sinistra e spada nella destra, si è spinto ad affermare che solo il Doriforo pompeiano doveva impugnare lo scudo, mentre le altre repliche avevano certamente la lancia!

È il facile adagiarsi nell’’ipse dixit’ che ha impedito per un secolo e mezzo di osservare la statua pompeiana con occhi diversi.

D: Nel suo studio lei non esclude la possibilità che l’opera sia da attribuire a Policleto. A suo parere si tratta effettivamente di una copia di una sua scultura?

R: L’archetipo è sicuramente policleteo. Lo testimoniano le sue proporzioni e il caratteristico motivo del passo, grazie al quale il peso del corpo viene scaricato su di una sola gamba portante che, avanzando, determina una serie di reazioni a catena all’interno della figura, una serie di ‘quadrationes’, ossia corrispondenze chiastiche (n.d.r.: il ‘chiasmo’, in scultura, è una formula compositiva a ‘X’ che in Policleto prende il nome di ‘Canone’, da un suo trattato in materia, andato perduto) ed omologhe fra tensioni e flessioni, che danno l’impressione di un corpo teso e vibrante.

D: Nel suo saggio lei ipotizza che la statua in realtà raffiguri l’eroe mitico Teseo, ma su questo non tutti gli studiosi concordano; alcuni, ad esempio, ritengono che nella mano sinistra, oltre lo scudo, la statua impugnasse anche una lancia e che possa raffigurare Achille o Patroclo, come in una stele funeraria ritrovata a Salamina (in Grecia) e da lei citata nel suo studio. Ad oggi qual è la tesi più accreditata?

R: Il periegeta Pausania, racconta di aver visto, nel corso della sua visita al ginnasio di Messene, tre statue raffiguranti Hermes, Eracle e Teseo. Gli scavi di Pétros Thémelis negli anni ’90 del secolo scorso hanno portato alla luce nella ‘stoá’ occidentale del ginnasio di Messene tre statue marmoree: le prime due rappresentano Hermes ed Eracle, mentre la terza è una replica di età augustea, del cosiddetto “Doriforo” di Policleto. L’esatta corrispondenza tra il dato archeologico e quello letterario indurrebbe a credere, quindi, che il personaggio da riconoscere nel tipo del “Doriforo” sia l’eroe attico Teseo, e non il tessalo Achille, come ipotizzato nel 1909 da Friedrich Hauser. L’identificazione di Hauser si basava sostanzialmente su due elementi: il passo della ‘Naturalis Historia’ (XXXIV, 18) in cui Plinio afferma che «un tempo, quindi, si dedicavano statue togate. Piacquero anche statue nude che tenevano la lancia sul tipo di quelle degli efebi (n.d.r.: adolescenti) poste nei ginnasi, che chiamano Achillee»; il rinvenimento ad Argo della famosa stele funeraria in marmo sulla quale è raffigurato, in bassorilievo, un personaggio in schema policleteo, che porta con la sinistra un ‘akóntion’, ovvero un corto giavellotto, poggiato alla stessa spalla e conduce per le redini un cavallo.

A questo punto, una domanda sorge spontanea: perché mai Achille avrebbe dovuto farsi ritrarre con uno solo dei suoi cavalli? Chi avrebbe lasciato nella stalla, ‘Balíos’ o ‘Xánthos’? Oltretutto, la tradizione ci parla della chioma bionda di Achille, mentre i capelli del “Doriforo”, come si vede dalle foto precedenti l’ultimo intervento di restauro, nel 2002, dovevano essere scuri, probabilmente di colore castano scuro.

Non ostante la labilità delle prove addotte da Hauser, la proposta di riconoscere l’eroe tessalo nel tipo del Doriforo è stata accolta, si può dire, universalmente. Pochissime le voci dissonanti, come, ad esempio, quella di Carlo Anti, che vide nella figura un atleta vincitore, o quella di Werner Gauer, che propose di riconoscere Oreste, o quella di Luigi Beschi ed Eugenio La Rocca, secondo i quali la statua, venendo ad essere il manifesto dei principi artistici di Policleto, non poteva rappresentare che sé stessa, cioè un uomo con la lancia.

La nuova ricostruzione proposta per il “Doriforo” quale giovane nudo, armato di spada nella destra e scudo nella sinistra, ben si accorda con il riconoscimento dell’eroe attico nell’archetipo statuario. La spada è, infatti, l’attributo specifico di Teseo, l’arma con la quale il giovane eroe supera gran parte delle sue prove iniziatiche, su tutte l’uccisione del Minotauro e la liberazione dei sette ‘épheboi’ (n.d.r.: efebi) e delle sette ‘parthénoi’ (n.d.r.: vergini) ateniesi.

È assai verosimile che la ‘pólis’ di Atene abbia commissionato al grande bronzista peloponnesiaco, ivi trasferitosi intorno al 445 a.C., come prima opera, proprio l’effigie bronzea dell’eroe “nazionale”. In tal caso il “Doriforo” costituirebbe non l’ultima opera policletea di ambiente peloponnesiaco, come si è soliti affermare, ma la prima di ambiente attico.

D: Quanto ritiene probabile che ulteriori studi e scoperte archeologiche possano svelare del tutto il mistero di questa famosa statua?

R: Poco probabile, a meno che non venga alla luce l’originale bronzeo di Policleto!

D: Napoli è una città che nasconde ancora molti segreti archeologici, ha in programma altri studi tesi a svelare antichi misteri?

R: Recentemente ho pubblicato in “Napoli Nobilissima” uno studio relativo al cosiddetto “Massimino Farnese” del MANN. Considerato a lungo quale ritratto onorario dell’imperatore Massimino il Trace, fu riconosciuto oltre vent’anni fa da Stefania Adamo Muscettola quale ritratto in nudità eroica di Marco Nonio Balbo, patrono di Ercolano. In realtà si tratta di una statua ricomposta in epoca moderna inserendo un ritratto veristico tardorepubblicano, non pertinente, in un corpo tardo augusteo o tiberiano, replica, molto probabilmente, dell’Hermes di Policleto (la statua è identica a quella rinvenuta da Petros Themelis nel ginnasio di Messene). Un altro lavoro è in corso stampa in “Rivista di Studi Pompeiani” e riguarda i cosiddetti “Corridori” di Ercolano, in realtà due giovanissimi lottatori, che andrebbero posizionati affrontati.

Molte delle opere custodite nel MANN, soprattutto le più famose, andrebbero riviste con occhio critico e privo di pregiudizio. Penso, ad esempio, alle statue dei Tirannicidi, identificate da Karl Friederichs nel 1859 e ritenute universalmente, ormai, repliche del gruppo creato da Kritios e Nesiotes nel 477 a.C. o alle cosiddette “Danzatrici” di Villa dei Papiri, ritenute essere un unico gruppo. Non escludo in un prossimo futuro lo studio, anche in collaborazione con miei laureati e specializzati, di tali “gruppi” statuari.

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E se il famoso Doriforo esposto al MANN in realtà fosse… Teseo? https://www.napoliflash24.it/e-se-il-famoso-doriforo-esposto-al-mann-in-realta-fosse-teseo/ https://www.napoliflash24.it/e-se-il-famoso-doriforo-esposto-al-mann-in-realta-fosse-teseo/#respond Wed, 28 Apr 2021 19:00:00 +0000 https://www.napoliflash24.it/?p=136061 Un archeologo napoletano, sulla base di convincenti prove, sostiene che la famosa statua esposta al MANN in realtà raffiguri l’eroe Teseo. Da secoli ammirata da visitatori illustri e semplici amanti dell’arte, la celebre statua del Doriforo, ovvero ‘portatore di lancia’, attribuita al famoso scultore greco Policleto ed esposta al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN), […]

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Un archeologo napoletano, sulla base di convincenti prove, sostiene che la famosa statua esposta al MANN in realtà raffiguri l’eroe Teseo.

Da secoli ammirata da visitatori illustri e semplici amanti dell’arte, la celebre statua del Doriforo, ovvero ‘portatore di lancia’, attribuita al famoso scultore greco Policleto ed esposta al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN), potrebbe in realtà raffigurare l’eroe ateniese Teseo. Così ipotizza, in un suo saggio, l’archeologo napoletano Vincenzo Franciosi, docente presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa. La statua in questione fu ritrovata nel 1797 a Pompei presso la Palestra sannitica, un edificio deputato alla formazione fisica e intellettuale dei giovani, risalente al II sec. a.C., quando Pompei non era ancora del tutto romanizzata sia politicamente che istituzionalmente. La prima identificazione della statua come Doriforo e l’attribuzione al famoso scultore Policleto di Argo, vissuto nel V secolo avanti Cristo, avvenne da parte dell’archeologo tedesco Karl Friederichs nel 1862. Lo stesso archeologo, tre anni prima, aveva riconosciuto altre due celebri statue oggi esposte al MANN: I tirannicidi’, ovvero Armodio e Aristogitone, di cui abbiamo narrato storia e mitologia in questo articolo https://www.napoliflash24.it/progetto-mann-le-opere-piu-belle-esposizione-tirannicidi/ e che il museo napoletano può vantare di essere l’unico al mondo ad avere entrambe. Nel caso del Doriforo, Friederichs ritenne di identificare la statua come tale, attraverso le fonti storiche e un’attenta analisi stilistica della statua; ma fu anche confortato nella sua ipotesi, dal restauro operato nell’800 da Angelo Solari, in cui lo scultore-restauratore decise di inserire una lancia nella mano sinistra della statua. Friederichs tuttavia, non ebbe mai modo di vedere la vera statua, ogni suo studio fu eseguito su una copia in gesso.

Doriforo di Policleto
Il doriforo di Policleto

Vincenzo Franciosi, nel suo saggio, non esclude la possibilità che la statua sia effettivamente di Policleto di Argo, ma mette in discussione che si tratti di un Doriforo. A tale conclusione l’archeologo napoletano giunge attraverso varie osservazioni: la rivisitazione delle antiche fonti, in particolare Plinio il Vecchio, porta a concludere che la statua sia quella descritta dall’antico studioso come uomo nudo che cammina con la spada”. Ma a ulteriore sostegno della sua ipotesi, lo studioso napoletano fa notare che in un recente restauro del reperto sono state scoperte, in corrispondenza dell’avambraccio sinistro, tracce di ossidazione causate da una fascia di bronzo, rivelando che la statua nel braccio sinistro non aveva una lancia, bensì uno scudo. A ulteriore conferma di tale ipotesi, l’archeologo partenopeo fa rilevare la somiglianza tra la posizione del braccio sinistro della statua, con quella dei bronzi di Riace, che nella sinistra hanno il porpax, ovvero il passante che serviva a far appoggiare lo scudo sul braccio; inoltre, la posizione delle dita rende più probabile che esse stringessero l’antilabè, ovvero l’impugnatura dello scudo, anziché una lancia. Oltre a ciò, il prof. Franciosi ha eseguito anche alcune prove con il restauratore Umberto Minichiello, verificando che posizionando una lancia nella mano sinistra della statua, essa avrebbe una posizione troppo alta, innaturale, scomoda e perfino pericolosa per i visitatori. Per quanto riguarda la mano destra, invece, lo studioso napoletano fa notare come, contrariamente a quanto ritenuto da Friederichs, non fosse libera da oggetti, bensì impugnasse qualcosa che Franciosi ipotizza potesse essere una spada, deducendolo da un incasso rettangolare presente nella mano. Alla luce di tutto ciò e del ritrovamento di un Teseo durante gli scavi effettuati a Messene, in Grecia, l’archeologo napoletano teorizza che la celebre statua esposta al MANN e da sempre ritenuta un Doriforo, raffiguri in realtà Teseo. Sebbene la maggior parte degli studiosi concordino con la teoria di Franciosi che nella mano sinistra la statua tenesse uno scudo e, dunque, non sia un Doriforo, e che la mano destra non fosse libera, non tutti però concordano sul fatto che impugnasse una spada. Tuttavia le prove portate dal prof. Franciosi a sostegno della sua ipotesi, hanno convinto gli studiosi ad affermare che la statua non è un Doriforo. Restiamo in attesa che ulteriori studi possano svelare la vera identità di questo capolavoro.

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MANN, le opere più belle in esposizione: La Venere Callipigia, il più bel fondoschiena dell’antichità https://www.napoliflash24.it/progetto-mann-le-opere-piu-belle-in-esposizione-la-venere-callipigia/ https://www.napoliflash24.it/progetto-mann-le-opere-piu-belle-in-esposizione-la-venere-callipigia/#respond Tue, 27 Apr 2021 19:00:00 +0000 https://www.napoliflash24.it/?p=113150 Il mistero del più bel fondoschiena dell’antichità Nella sala XXV del Museo Archeologico Nazionale di Napoli è esposta una statua che immediatamente cattura l’attenzione dei visitatori: è la Venere Callipigia. Curiosamente, entrando nella sala non la vedrete esposta frontalmente come qualsiasi altro reperto, bensì di spalle. Naturalmente non è un caso se la statua è […]

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Il mistero del più bel fondoschiena dell’antichità

Nella sala XXV del Museo Archeologico Nazionale di Napoli è esposta una statua che immediatamente cattura l’attenzione dei visitatori: è la Venere Callipigia. Curiosamente, entrando nella sala non la vedrete esposta frontalmente come qualsiasi altro reperto, bensì di spalle. Naturalmente non è un caso se la statua è esposta in questo modo. Il suo nome è già un indizio: ‘Callipigia’ in greco significa ‘dalle belle natiche’ e l’opera è stata più volte citata come ‘il più bel fondoschiena dell’antichità’, se poi aggiungiamo che si tratta delle natiche della dea della bellezza Venere, che i Greci chiamavano Afrodite, vi sarà chiaro il motivo per cui quest’opera d’arte è insolitamente esposta di schiena anziché frontalmente. La storia di questo capolavoro dell’arte antica è in parte ignota. Sappiamo che la statua è stata rinvenuta nei pressi della Domus Aurea e che risale all’età adrianea, quindi al II sec. d.C.; si tratta di una copia romana da un originale greco del II sec. a.C., sebbene l’iconografia risalga al IV sec. a.C. Nel 1594 fu acquistata dalla famiglia Farnese, di cui abbellì il palazzo meglio noto come Villa della Farnesina. La statua fu esposta al centro della ‘Sala dei Filosofi’ e formava un gruppo di tre statue insieme alle due Veneri accovacciate, anch’esse in esposizione al MANN. Nella ‘Sala dei Filosofi’ erano esposti ritratti di filosofi e letterati, ed è curiosa la collocazione che i Farnese scelsero per la Venere Callipigia che, essendo posizionata al centro della sala, sembrava essere osservata dai filosofi e dai letterati i cui ritratti la circondavano. Nel 1786, insieme a gran parte della famosa Collezione Farnese, fu trasferita a Napoli (per la storia della Collezione Farnese vi rimandiamo all’articolo che trovate cliccando su questo link https://www.napoliflash24.it/progetto-mann-la-storia-del-museo-la-collezione-farnese-fiore-allocchiello-del-mann/ ); nel 1792 la Venere Callipigia era esposta al Museo di Capodimonte, solo nel 1802 fu trasferita al Palazzo degli Studi, oggi Museo Archeologico Nazionale di Napoli, e inizialmente posta nella collezione segreta per la sua spiccata sensualità. La statua fu ritrovata priva di testa, che fu aggiunta in un primo momento dalla famiglia Farnese quando l’acquistarono, poi, successivamente al trasferimento a Napoli, fu Carlo Albacini a provvedere al restauro dell’opera, in particolare alla sostituzione della testa, e al ripristino delle spalle, del braccio sinistro con parte del lembo del peplo, della mano destra e del polpaccio destro, ma il restauro, molto ben fatto, ha lasciato alla statua il suo stile ellenistico.

La dea è raffigurata nell’atto dell’anasyrma, ovvero mentre scopre i fianchi e il fondoschiena sollevando il peplo, e volge lo sguardo all’indietro per ammirarli con consapevole malizia.

Della statua esistono diverse repliche anche del ‘600, tra cui quelle di Jean-Jacques Clérion e François Barois. Eppure, di questa statua così ammirata e famosa, molto resta avvolto nel mistero: per prima cosa non tutti sono d’accordo nell’individuare la dea Afrodite nella donna raffigurata, qualcuno ritiene possa trattarsi di una etera o di una danzatrice; inoltre è incerto anche il periodo storico di riferimento, che varia tra il III e il II secolo a.C. Ma è dubbio anche il luogo d’origine, che alcuni pensano possa  essere la Sicilia o, più ampiamente, la Magna Grecia, mentre altri sostengono possa essere l’Asia Minore. Se la donna raffigurata è realmente la dea della bellezza Afrodite, bisogna considerare che aveva i suoi maggiori centri di culto ad Erice, in Sicilia, e a Cipro. Secondo la versione più nota del mito, infatti, Afrodite sarebbe nata dalla schiuma delle onde di Citera, un’isola a sud del Peloponneso, ma gli abitanti di Cipro sostenevano fosse nata dalla spuma del loro mare. Il suo nome deriva da ‘Afros’, in greco ‘spuma del mare’ e i suoi epiteti più noti erano Afrodite Kiprisa (Afrodite di Cipro) e Afrodite Kithira (Afrodite di Citera). Un giorno forse gli archeologi sveleranno il mistero di questa statua, ma nulla potrà portarle via quel fascino che da millenni ammalia chi ha la fortuna di trovarsi di fronte alla sua sensuale bellezza.

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Capodimonte, l’arte incastonata nella natura https://www.napoliflash24.it/capodimonte-larte-incastonata-nella-natura/ https://www.napoliflash24.it/capodimonte-larte-incastonata-nella-natura/#respond Mon, 26 Apr 2021 19:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=101282 Immerso nel verde del parco si erge la Reggia, uno scrigno colmo di capolavori Il Parco di Capodimonte è meta di molti napoletani che amano immergersi nel suo verde per fare sport, passeggiare o anche solo cercare un po’ di relax. Tutti sanno che c’è anche uno splendido museo all’interno, ma quest’ultimo è generalmente preso […]

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Veduta esterna del museo di Capodimonte

Immerso nel verde del parco si erge la Reggia, uno scrigno colmo di capolavori

Il Parco di Capodimonte è meta di molti napoletani che amano immergersi nel suo verde per fare sport, passeggiare o anche solo cercare un po’ di relax. Tutti sanno che c’è anche uno splendido museo all’interno, ma quest’ultimo è generalmente preso d’assalto dai turisti che non hanno il tempo di visitare i centoventiquattro ettari del bosco e quindi giustamente limitano la loro visita al museo. Il parco di Capodimonte era la riserva di caccia del re Carlo di Borbone e la Reggia, che oggi ospita il museo, era inizialmente destinata ad essere la residenza del re. I lavori iniziarono il 10 dicembre 1738 sotto la direzione del palermitano Giovanni Medrano, ma dopo circa un ventennio il segretario di Stato, marchese de Salas, riuscì a far sì che l’edificio non fosse solo luogo di residenza del re, ma anche l’ambiente dove esporre parte della Collezione Farnese che il sovrano aveva ereditato dalla madre, Elisabetta Farnese. Nel 1758 furono trasferite le prime tele e tra gli illustri visitatori vi furono Goethe, Canova e il marchese de Sade, ma fu solo nel 1785, con la reggenza di Ferdinando I delle Due Sicilie, che fu istituito il Regolamento del Museo di Capodimonte. Nel 1799, durante la breve Repubblica Napoletana, i francesi saccheggiarono il museo vendendo centinaia delle opere esposte e trattenendone alcune decine per la Repubblica, solo poche furono poi recuperate dal re Ferdinando. Successivamente furono trasferite nel museo l’Armeria Reale Borbonica e quella Farnese, il Salottino in porcellana della regina Maria Amalia di Sassonia, originariamente alla Reggia di Portici, e arazzi della Manifattura Reale; questa rivalutazione della Reggia di Capodimonte fece sì che nel 1877 fosse scelta quale sede di una festa durante l’Esposizione Nazionale di Belle Arti. Agli inizi del ‘900 la Reggia fu saltuariamente abitata dai Savoia e divenne poi residenza dei duchi d’Aosta. Durante la seconda guerra mondiale le opere furono trasferite in luoghi più sicuri, il che non impedì ai tedeschi di trafugare diverse opere importanti poi ritrovate e restituite a Napoli al termine del conflitto. Nel 1949 fu firmato l’atto che decretava l’istituzione del Museo Nazionale di Capodimonte che fu, però, ufficialmente inaugurato solo nel 1957 e vide, nel corso degli anni, l’apertura parziale di nuove sale fino a raggiungere l’intera disponibilità delle sale nel 1999.

Caravaggio – Flagellazione di Cristo

Attualmente il Museo Nazionale di Capodimonte ospita nel seminterrato due sale didattiche, al piano terra i servizi per i visitatori e ai piani superiori le collezioni d’arte. Al piano ammezzato troviamo la Collezione Mele, donata al museo dai fratelli Mele e composta dai manifesti pubblicitari, disegnati da artisti dell’epoca, dei Grandi Magazzini Mele aperti a Napoli nel 1889. Allo stesso piano troviamo il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe composto da migliaia di disegni preparatori di artisti quali Rembrandt, Guido Reni, Jusepe de Ribera e Aniello Falcone solo per citarne alcuni, e cinque sale che ospitano dipinti di artisti quali Vincenzo Gemito, Domenico Morelli e Gioacchino Toma. Il primo piano è occupato prevalentemente dalla Galleria Farnese, dov’è esposta la celebre collezione, e dall’Appartamento Reale che comprende il Salottino di Porcellana e la Galleria delle Porcellane. Nella Galleria Farnese si possono ammirare dipinti di autori quali Raffaello, El Greco e Tiziano, di cui il museo di Capodimonte vanta la più ricca e importante collezione di opere al mondo; ma allo stesso piano si trovano anche la celebre ‘Crocifissione’ di Masaccio, un’interessante copia del ‘Giudizio universale’ di Michelangelo eseguita da Marcello Venusti (in cui si può notare quanto era diverso il capolavoro di Michelangelo prima che Daniele da Volterra coprisse quelle che all’epoca furono considerate ‘parti indecenti’) e molte altre opere di pittori fiamminghi, emiliani e di altre scuole artistiche. Sempre allo stesso piano sono state allestite le sale che vedono in esposizione la Collezione De Cicco, la Collezione Borgia e l’Armeria farnesiana e borbonica. Il secondo piano è quasi interamente impiegato nell’esposizione della Galleria Napoletana, dove troviamo dipinti di artisti della scuola napoletana o che lavorarono a Napoli influenzando gli artisti locali; tra i tanti ricordiamo Micco Spadaro, Battistello Caracciolo, Bernardo Cavallino, Luca Giordano e Salvator Rosa. Dell’esposizione fanno parte anche arazzi e sculture. Un’intera sala è poi dedicata al capolavoro di Caravaggio che segnò un radicale cambiamento nella pittura sacra napoletana del ‘600: la ‘Flagellazione di Cristo’. Sempre in esposizione al secondo piano troviamo, inoltre, la Sala degli Arazzi, la Collezione d’Avalos e le sale dedicate all’arte contemporanea; queste ultime proseguono al terzo piano, dov’è esposta l’opera ‘Vesuvius’ di Andy Warhol, mentre nel sottotetto del museo sono presentate tre opere: ‘Onda d’Urto’, di Mario Merz,Un’Osservazione Grammaticale’ di Joseph Kosuth e ‘Camera’ di Carlo Alfano. Chiudono il terzo piano la sezione fotografica, inaugurata nel 1996, e la Galleria dell’Ottocento, in cui troviamo esposte opere di Filippo Palizzi e Francesco Saverio Altamura.

Filippo Tagliolini – Caduta dei Giganti – Particolare di Zeus con la folgore

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Alla scoperta dei musei di Napoli: la Certosa di San Martino https://www.napoliflash24.it/alla-scoperta-dei-musei-di-napoli-la-certosa-di-san-martino-la-visita-guidata/ https://www.napoliflash24.it/alla-scoperta-dei-musei-di-napoli-la-certosa-di-san-martino-la-visita-guidata/#respond Sat, 24 Apr 2021 19:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=98690 Dopo averne narrato la storia, vi portiamo in visita al complesso museale della Certosa di San Martino. Nel precedente articolo vi abbiamo narrato la storia dello splendido complesso museale della Certosa di San Martino, ora vi porteremo alla scoperta dei tesori in essa contenuti e vi descriveremo gli ambienti interni. Una volta entrati nel cortile […]

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Dopo averne narrato la storia, vi portiamo in visita al complesso museale della Certosa di San Martino.

Certosa di San Martino – Sezione Navale – Lancia reale a 14 remi di Umberto I di Savoia – 1889

Nel precedente articolo vi abbiamo narrato la storia dello splendido complesso museale della Certosa di San Martino, ora vi porteremo alla scoperta dei tesori in essa contenuti e vi descriveremo gli ambienti interni. Una volta entrati nel cortile d’ingresso alla Certosa, in direzione Ovest trovate la facciata della chiesa dei monaci. Alcune arcate del pronao furono chiuse alla fine del ‘500 dall’architetto toscano Giovanni Antonio Dosio, (della sua opera di ampliamento abbiamo scritto nel precedente articolo) per lasciare posto alle due cappelle del Rosario e di San Giuseppe. Da Sud-Est, invece, incombe uno degli imponenti speroni dell’adiacente Castel Sant’Elmo, di epoca trecentesca. Proseguendo troviamo il chiostro dei Procuratori, anch’esso frutto dell’ampliamento progettato dell’architetto toscano Dosio; i suoi portici e la loggia costruiti in piperno e marmo, rappresentano un inevitabile snodo per l’accesso ad importanti ambienti della Certosa, come il Refettorio, il Chiostro Grande, la Spezieria (o farmacia dei monaci) e la cosiddetta Sala delle Carrozze. Al centro del cortile è posto un puteale seicentesco di Felice De Felice; alle pareti del portico, invece, si trovano stemmi, iscrizioni e rilievi provenienti dagli antichi rioni di Napoli, inglobati nel patrimonio museale dagli inizi del ‘900.
Il Chiostro grande, già concepito nell’originario impianto trecentesco della Certosa, fu ricostruito senza grosse modifiche nel Seicento forse da Cosimo Fanzago, al quale vengono attribuite anche la balaustra del cimiterino dei monaci e cinque dei sette busti sulle porte angolari del porticato. Sopra la balaustra agli angoli e al centro del loggiato, otto statue marmoree raffiguranti Cristo, la Vergine e Santi.
Ricco di opere d’arte, sebbene quelle rimaste rappresentino la minima parte della raccolta preesistente e in gran parte rubata dai francesi nel 1806, è il cosiddetto ‘Quarto del Priore’, che rappresentava l’appartamento privato del capo della comunità monastica certosina. L’arredo liturgico superstite è ricordato soprattutto per alcune anfore e fanali di gusto barocco, nonché per un finissimo paliotto ricamato di fine Seicento. Il priore usufruiva anche di un oratorio privato, luogo destinato alla preghiera personale del capo della comunità. Al suo interno e in buono stato di conservazione, si possono vedere i riquadri dipinti del soffitto: al centro, “Cristo morto sorretto dall’angelo, fiancheggiato da temi desunti dalla Creazione biblica, tutti dipinti probabilmente dal Cavalier d’Arpino e dai suoi collaboratori sul finire del ‘500. La cappella del Quarto del Priore presenta sul soffitto alcuni affreschi di Micco Spadaro: nelle lunette Paesaggi, al centro, invece, un’Immacolata con angeli. Ben conservato nella sua policromia originaria, troviamo anche un S. Michele che scaccia il demonio dello scultore settecentesco Domenico Antonio Vaccaro. Nelle gallerie del Quarto del Priore sono esposte numerose opere di pittori attivi a Napoli nel Seicento quali furono Massimo Stanzione, autore di un Battesimo di Cristo, Giovanni Lanfranco presente con una Madonna con bambino e SS. Domenico e Gennaro, Jusepe Ribera autore di un S. Sebastiano, Battistello Caracciolo, che dipinge quattro bozzetti per la cappella di San Gennaro nella chiesa della Certosa e Pacecco De Rosa, al quale è attribuita una Deposizione di Cristo. Dallo studiolo del Priore, mediante la Scala dello Gnomone con l’orologio solare seicentesco che l’adorna, si accede al Giardino Grande del Priore e ad un’annessa loggetta, da non confondere con la più nota Loggia del Belvedere descritta dai viaggiatori dei secoli XVII e XVIII. Sempre tra gli ambienti del Quarto del Priore possiamo ammirare un busto di San Bruno in bronzo argentato e dorato, del 1638, proveniente dalla chiesa della Certosa, pregevole opera di Cosimo Fanzago, mentre sono firmate da Belisario Corenzio (di cui abbiamo descritto storia e opere in un precedente articolo) quattro tele contenenti ognuna un putto recante simboli della Passione di Cristo; inoltre è da notare un indiscusso capolavoro tra Manierismo e Barocco: il gruppo statuario di Pietro Bernini della Madonna con Bambino e San Giovannino, originariamente collocato in una nicchia del cortile interno del Quarto e dal 1947 nell’attuale collocazione che permette di apprezzarne al meglio le qualità estetiche. Allo stesso Bernini è attribuito un bassorilievo raffigurante S. Martino che divide il mantello con il povero, un tempo situato all’ingresso del monastero, mentre di Girolamo Santacroce è il sepolcro cinquecentesco del cavaliere Carlo Gesualdo, un tempo posto nella chiesetta delle Donne, adiacente alla Certosa stessa. Molto bello anche il S. Martino di fine ‘400 di Protasio Crivelli, un coevo trittico di manifattura napoletana, mancante purtroppo del tema centrale, con ai lati Roberto e Carlo d’Angiò in veste di Re Magi ed uno dei pilastrini trecenteschi, dalla chiesa della Certosa, di bottega dei fratelli Bertini.
La chiesa, come abbiamo scritto nel precedente articolo, fu oggetto di una trasformazione e un ampliamento alla fine del Cinquecento, con l’aggiunta delle bellissime cappelle laterali che, con la chiesa stessa, rappresentano un tesoro unico del barocco napoletano. Ornata da tele di pittori secenteschi operanti a Napoli, l’abside presenta un pregevole soffitto dipinto dal Cavalier d’Arpino, maestro di Caravaggio nel suo primo soggiorno romano. Sulla parete di fondo, una Natività di Guido Reni accompagnata dalle statue della Vita Attiva e Contemplativa, rispettivamente di Pietro Bernini e Giovanni Battista Caccini. Poggianti su un pavimento decorato da Cosimo Fanzago, gli stalli lignei che formano il coro sono opera di Orazio De Orio del 1629; al centro troviamo un leggio in noce di ignoto artigiano manierista.
Nelle adiacenze della chiesa, tra i lavori di ampliamento del Dosio, troviamo La Cappella del Tesoro; preceduta dalla Sagrestia, questa sala rappresenta l’ultima fatica del pittore napoletano Luca Giordano: sua la volta con il “Trionfo di Giuditta” e “Storie dell’Antico Testamento”, databili al 1603. Al centro, l’altarino realizzato da Giovanni Selino a inizio Seicento con la pala di Ribera raffigurante una Pietà; di fine secolo, invece, i circostanti mobili lignei intagliati da Gennaro Monte. Dal lato opposto, invece, si accede alla sala capitolare e, attraverso un passetto, al parlatorio. Il Parlatorio era l’ambiente dove solitamente i certosini vivevano i loro momenti comunitari. Nella volta, affreschi tardo-cinquecenteschi di Avanzino Nucci, con al centro la “Discesa dello Spirito Santo”. Sulle pareti, invece, “Storie” della vita di San Brunone e, agli angoli, “Santi Priori dell’Ordine Certosino”. Il passetto che funge da elemento di congiunzione tra il Parlatorio e la Sala Capitolare, presenta nella volta affreschi di Bernardino Cesari del 1593 con “Scene dell’infanzia di Cristo” intermezzate da Virtù. Tra le opere pittoriche seicentesche di maggiore pregio nella Sala del Capitolo, si ricordano alcuni temi biblici rappresentati da Belisario Corenzio nel soffitto, nonché l’”Apparizione della Vergine che dà la regola a San Bruno” di Simon Vouet e un’ “Adorazione dei Magi” di Battistello Caracciolo sulle pareti. Provenendo, invece, dai giardini della Certosa, ci si imbatte nella Sala o androne delle Carrozze, allestita nel 1886 da Alberto Avena, direttore dell’epoca del Museo. Al suo interno sono due i pezzi custoditi, fiancheggiati sulle pareti da stemmi vicereali e reali: il primo è una “berlina di corte”, costruita nel 1804 per i Borbone e usata spesso da re Ferdinando II e sua moglie, Maria Cristina di Savoia, per alcune speciali uscite, come le gite al Duomo ed alla settembrina festa della Piedigrotta. Il secondo è, invece, la più antica “carrozza di gala”, in legno dorato, ornata da placche dipinte, sete e velluti; commissionata dal Tribunale di San Lorenzo tra fine Seicento ed inizio Settecento, essa venne utilizzata sia dai membri del Consiglio cittadino degli Eletti, ovvero i governanti della città, sia dal clero per particolari cerimonie religiose.
Di particolare rilevanza anche la sezione presepiale, il cui elemento centrale è la grandissima opera donata al Museo di S. Martino nel 1879 dall’architetto e commediografo, Michele Cuciniello. Custodito in una sorta di grotta, il presepe, i cui pastori sono di manifattura settecentesca, presenta le tre canoniche scene della Natività, dell’Annuncio ai pastori e della Taverna. Le altre sale della Sezione contengono le cosiddette “scarabattole”, teche in legno e vetro di medio-grandi dimensioni, dove si trovano in genere la Madonna con il Bambino, San Giuseppe e pochi altri personaggi. Apposite vetrine sono dedicate agli accessori e alle figure presepiali minori, ossia i Re Magi, la banda dei musicanti, i venditori di frutta, verdura, carne, pesce, salumi e formaggi, i mendicanti ed infine gli animali come le capre, guidate spesso dal loro guardiano, i buoi, i cani e le galline. Altra opera che si evidenzia tra le altre, è il presepe di San Giovanni a Carbonara, proveniente dalla Chiesa di San Giovanni a Carbonara e commissionato nel 1478 da Jaconello Pipe, aromatario del duca di Calabria, il presepe presenta oggi solo quattordici delle originarie quarantuno statue lignee. Al centro, la Madonna e San Giuseppe prostrati ad adorare il Bambin Gesù.
Otre a quanto descritto finora, il complesso museale comprende anche le più recenti e interessanti sezioni navale e teatrale. La Sezione Navale, rimasta chiusa per diversi anni a causa di lavori di adeguamento e manutenzione, ma che presenta oggi un ricchissimo e interessante allestimento. Sistemato sul livello superiore, un “Caicco Reale”, in legno di salice intagliato, dipinto e dorato, donato dal sultano Selim III a re Ferdinando IV di Borbone verso la fine del Settecento. Su una delle pareti circostanti, alcuni pannelli con modelli di nodi in uso nella Regia Marina borbonica. Nelle vetrine, riproduzioni di imbarcazioni della flotta del Regno delle Due Sicilie a cura di maestranze napoletane di primo Ottocento, come modelli di fregate da 44 o 48 cannoni e del brigantino “principe Carlo”. Al livello inferiore, attorniata dalle riproduzioni delle corazzate Re Umberto e Regina Margherita, una Lancia a 14 remi per gli stessi reali di casa Savoia, costruita nel Regio Arsenale di Napoli nel 1889; dalla stessa officina proviene anche una Lancia a 24 remi di re Carlo di Borbone, databile intorno al 1750 e munita di un baldacchino recante all’interno un’”Allegoria dell’Agricoltura con i Quattro Venti” di Fedele Fischetti. La sezione teatrale è composta dalla collezione ‘Archivio San Carlo’, e da numerosi cimeli acquisiti e databili per lo più intorno alla prima metà dell’Ottocento. Si tratta non solo di stampe, fotografie, disegni, dipinti e sculture, ma anche di articoli, ricostruzioni teatrali, maschere e costumi. Tra essi troviamo il plastico del teatro San Carlino, la maschera in cuoio e il ritratto di Giancola, il più celebre Pulcinella del Settecento, il ritratto di Eduardo Scarpetta nelle vesti di Felice Sciosciammocca e tanti altri ritratti di artisti quali Salvatore Di Giacomo, Vincenzo Bellini, Domenico Cimarosa, Saverio Mercadante e Giuseppe Cammarano.
Durante la vostra visita alla Certosa di San Martino potrete da più punti ammirare un panorama davvero stupendo di tutto il Golfo di Napoli, dall’isola di Capri, prospiciente la Punta Campanella della Penisola Sorrentina, al Vesuvio, passando nella direzione opposta a Mergellina ed alla collina di Posillipo, e lo potrete fare sia stando sul terrazzo affacciandovi sui giardini, che dalle finestre delle varie sale, oltre che da tanti altri punti di questo museo dove, come in pochi altri al mondo, l’arte esposta all’interno viene avvolta dallo splendore di un panorama che è anch’esso un’opera d’arte, ma della natura.

Certosa di San Martino – Sezione Teatrale – Vista di una sala con sullo sfondo la ricostruzione del palco del teatro San Carlino

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La Certosa di San Martino vista dall’alto di Castel Sant’Elmo con lo sfondo del Vesuvio

Dal primo nucleo del monastero costruito nel 1325 al complesso museale di oggi, vi raccontiamo la storia della Certosa di San Martino.

Da sempre e ancora oggi, i visitatori che giungono a Napoli via mare e ammirano la nostra città, vengono immancabilmente attratti dall’elegante e imponente edificio bianco che svetta sulla collina del Vomero di fronte al porto e alle cui spalle si erge un castello. Stiamo parlando, ovviamente (per i napoletani), della Certosa di San Martino, un monastero divenuto oggi uno dei più bei complessi museali d’Italia. Ma la sua storia è bella e interessante quanto i capolavori che si possono ammirare al suo interno, e inizia nel 1325, quando per volere di Carlo d’Angiò duca di Calabria iniziarono i lavori per la costruzione di un monastero da affidare all’ordine dei certosini, verso cui gli angioini avevano una preferenza. A quel tempo la zona era una collina completamente verde di boschi, poco abitata e isolata, una posizione perfetta per chi doveva, in solitudine, dedicarsi alla contemplazione e alla preghiera, e i monaci (circa una dozzina guidati dal primo priore, Padre Roberto da Siena) iniziarono ad abitare l’edificio già nel 1337 sebbene la consacrazione della chiesa, ad opera del cardinale Guglielmo d’Agrifoglio, ebbe luogo solo il 28 febbraio 1368, secondo alcuni alla presenza della regina Giovanna d’Angiò. La chiesa fu dedicata a Maria Vergine, a San Martino e a tutti i santi, tuttavia il complesso prese il nome attuale solo nel XVI secolo, quando fu dedicato a Martino di Tours, presumibilmente in quanto vi era già un’antica cappella a lui dedicata prima che iniziassero i lavori per il nuovo monastero. Una curiosità, oggi poco nota, è che la piccola chiesa del XVII secolo sita sul piazzale alla sinistra dell’ingresso della certosa, è chiamata Chiesa delle Donne in quanto designata ad uso esclusivo delle donne, alle quali allora era proibito l’accesso al monastero. Il progetto del nucleo originale finora descritto, fu affidato agli stessi architetti che in quegli anni lavorarono anche al Castello di Belforte, oggi Castel Sant’Elmo, ovvero Mazzeo di Malotto, Francesco di Vito e Tino da Camaino, alla cui morte successe Attanasio Primario coadiuvato da Balduccio de Bocza; di quel nucleo attualmente restano poche tracce sia come architettura che, purtroppo, come testimonianze pittoriche. La certosa infatti fu oggetto di notevoli modifiche nel corso dei secoli, in particolare al tempo della Controriforma, verso la fine del Cinquecento, per volere dell’allora priore Severo Turboli fu progettato un abbellimento ed un ampliamento della certosa affidato all’architetto fiorentino Giovanni Antonio Dosio, il quale diede al complesso l’attuale elegante veste barocca sostituendola al precedente e più severo aspetto gotico. Dopo la morte del Dosio i lavori proseguirono sotto la direzione di Giovanni Giacomo Conforto a cui subentrò, infine, Cosimo Fanzago. A questi lavori dobbiamo le bellissime opere del barocco napoletano che ancora oggi possiamo ammirare, fu infatti allora che intorno alla chiesa sorsero le cappelle laterali, la cappella del Tesoro Nuovo, il coro, il refettorio e il parlatorio, dove possiamo ammirare affreschi e tavole dei maggiori artisti dell’epoca quali Battistello Caracciolo, Juseppe de Ribera, Belisario Corenzio (di cui abbiamo ampiamente parlato in un precedente articolo), Guido Reni, Luca Giordano e Massimo Stanzione, solo per citarne alcuni; ma anche le sculture in esposizione di Pietro Bernini, Michelangelo Naccherino e Giovan Battista Caccini risalgono allo stesso periodo. Sempre durante quei lavori di ampliamento fu ristrutturato il chiostro grande, aggiunte nuove celle per i monaci che, nel frattempo, crescevano rapidamente di numero, e fu aggiunto il chiostro dei Procuratori. Ulteriori lavori furono effettuati successivamente nel XVIII secolo e affidati all’architetto napoletano Nicola Tagliacozzi Canale, essi riguardarono principalmente gli spazi occupati dal priore. Di quel periodo sono i lavori di pittura eseguiti da Crescenzio Gamba, Domenico Antonio Vaccaro, Francesco Solimena e Francesco De Mura. Tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, a causa del giacobinismo e della conseguente nascita della Repubblica Napoletana, i monaci furono costretti più volte ad abbandonare la certosa, ne conseguì un’inevitabile decadimento che vide anche la confisca dei beni in essa contenuta. Curiosamente proprio nello stesso anno, il 1866, in cui la certosa divenne sede del 163° Battaglione della Guardia Nazionale, a essa fu annesso il museo omonimo e il tutto, su richiesta dell’archeologo Giuseppe Fiorelli, divenne il Museo Nazionale di San Martino, destinato a raccogliere ed esporre i ricordi della storia di Napoli, la proprietà diventò dello Stato e le raccolte di opere d’arte iniziarono nuovamente a crescere, soprattutto sotto le direzioni di Felice Niccolini, Vittorio Spinazzola e Gino Doria, fino a diventare quelle che sono arrivate oggi a noi. Durante la seconda guerra mondiale il complesso museale fu nuovamente svuotato dei suoi tesori e l’edificio subì diversi danneggiamenti, alla fine del conflitto le opere rientrate furono disposte con le modalità di un più moderno museo. Più recentemente tutto il complesso è stato oggetto di nuove ristrutturazioni fino ad arrivare all’attuale allestimento. Nel prossimo articolo vi porteremo alla scoperta dei numerosi tesori esposti all’interno del polo museale, descrivendovi anche i vari ambienti in modo da rendere più interessante la vostra visita, perché leggendo vi verrà certamente voglia di vedere di persona lo splendore della Certosa di San Martino!

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