Carlo Fedele – Napoliflash24 – Giornale di informazione su Napoli e Campania https://www.napoliflash24.it Napoliflash24: notizie di cronoca, attualità, politica, news, eventi, spettacoli, sport, calcio, cucina e lavoro. Segui il giornale della città di Napoli. Tue, 25 May 2021 19:01:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.7.2 Antonio Petito, la grande Maschera https://www.napoliflash24.it/antonio-petito-la-grande-maschera/ https://www.napoliflash24.it/antonio-petito-la-grande-maschera/#respond Tue, 22 Jun 2021 17:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=34876 Antonio Petito nasce il 22 giugno 1822 in una famiglia di affermati attori, dal padre Salvatore, noto comico, e dalla proprietaria, impresaria e attrice del teatro napoletano “Silfide“, Giuseppa D’Errico. Il teatro, conosciuto come “teatro di nonna Peppa” era frequentato soprattutto dal vivace proletariato cittadino e sorgeva in una popolare strada di Napoli, Via Carmine. […]

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Antonio Petito nasce il 22 giugno 1822 in una famiglia di affermati attori, dal padre Salvatore, noto comico, e dalla proprietaria, impresaria e attrice del teatro napoletano “Silfide“, Giuseppa D’Errico. Il teatro, conosciuto come “teatro di nonna Peppa” era frequentato soprattutto dal vivace proletariato cittadino e sorgeva in una popolare strada di Napoli, Via Carmine.
Esordì all’età di nove anni nell’opera “Giovanni della Vigna“, commedia di Filippo Cammarano, e continuò per molti anni ad esibirsi al seguito della famiglia che lavorava per un impresario dei teatri San Carlino e San Ferdinando.
Il vero debutto avvenne nel 1840, quando entrò nella Compagnia di Pietro Martini e, un anno, fu per la prima volta Pulcinella.
Furono per Petito, nonostante un discreto successo, anni un po’ difficili, specie per contrasti familiari dovuti al suo desiderio di smarcarsi definitivamente da quel contesto teatrale.
D’altro canto il disagio derivava dalle condizioni stesse degli attori nella prima metà dell’Ottocento; le grandi Compagnie stabili dell’età napoleonica erano al tramonto, non esisteva un repertorio nazionale di riferimento, anche perché ostacolato dalle censure.
Dopo aver recitato in altri teatri, anche della provincia, Petito si cimentò, con successo, in ruoli drammatici, fu “Jago” nell’ “Otello” del teatro materno.
petito 2Dopo la crisi dei teatri napoletani in seguito agli avvenimenti quarantotteschi, fu ancora Pulcinella al Teatro delle Fosse del grano, poi, nel 1850, debutta al “Partenope” con la farsa: “Avviso ai mariti“. Nello stesso anno, sollecitata dall’impresario Luzi, la Compagnia Petito tornò al San Carlino dove recitò, tra le altre, “Miseria e nobiltà” di Eduardo Scarpetta.
Seguirono le rappresentazioni de “Il medico per forza” di Molière, “S’è spento il lume” di Salvatore Cammarano, in cui Petito veste ancora la maschera. Un anno dopo con “L’innocenza in trionfo di Cerlone“, Petito abbandona la maschera ed evolve in “Pascariello“, contribuendo, in questi anni, all’imborghesimento della maschera e compiendo il processo che la porta ad essere simbolo regionale.
Gli eventi personali e artistici di Petito, da questi anni in poi, seguono gli sviluppi della città e del tempo. Nelle opere di Petito si raccontano storia e cronache allora attuali.
Petito è ormai conteso da vari teatri e in tutti sarà celebrato Pulcinella. Il debutto come autore avviene con la commedia “Pulicenella finto dottore e pezz’a l’uocchie” del 1851.
Ignorante ma acuto, autore ma non letterato, genio o meglio “pazzo“, com’era definito, Petito è tutto questo. Ha una potente carica espressiva e lampi lungimiranti, il suo recitare in dialetto poco ha a che fare con quello del tempo, è lingua autonoma, incisiva e dura, che trova terreno ideale nella parodia e, dunque, nell’immediatezza della scena che sa coinvolgere anche sottoproletariato e piccola borghesia oltre all’aristocrazia in decadenza. Petito si divide tra il San Carlo e il San Carlino portandosi dietro le scene per avere riscontro di un’operazione di mediazione culturale unica nel suo genere tra le classi sociali.
Con Petito irrompe nel teatro recitando un semplice canovaccio ma che egli porta a compimento estemporaneamente. Petito scardina schemi classici e repertori, li trasfigura, con la parola e l’azione scenica, attraverso la pantomima parodistica e l’elemento fantastico in una lingua diversa dal dialetto grammatizzato. La sua arte del movimento invade gli spazi scenici e l’attore si impone sul testo e sull’autore coinvolgendo lo spettatore in un dialogo diretto e immediato che darà luogo ad un nuovo filone di attori.
Negli anni Cinquanta la fama di Petito è all’apice, la famiglia reale borbonica si reca spesso al San Carlino solo per lui. Nel 1852 al debutto al San Carlino avvenne il noto episodio della consegna della maschera da parte del padre Salvatore a suggello della trasmissione di un’eredità artistica. Del 1853 è un’altra significativa parodia in cui Pulcinella si profonde in manifestazioni antirazziali contro lo schiavismo d’oltreoceano in “L’appassionate pe lo romanzo de lo zio Tom“. La parodia del famoso libro è la testimonianza di una partecipazione a fatti non più solo napoletani.
petito 3L’anno 1855 si rappresentò al San Carlo il “Rigoletto” di Verdi, Petito fu mandato ad assistere ed ecco puntuale la versione al San Carlino in “Na famiglia ‘ntusiasmata pe la bella musica de lo Trovatore” in cui il Petito, travestito da donna, parodiava la Medori, la quale desiderò assistere alla performance e si entusiasmò tanto da complimentarsi con lui sinceramente.
Negli anni a seguire, Petito, tra Pulcinella e Felice Sciosciammocca ricuce, con il personaggio attore, la tradizione della Commedia dell’Arte e getta le basi del Varietà novecentesco, del cinema e di quel filone di grandi attori popolari che annovera tra le sue fila Eduardo e Totò. La Compagnia fu a Roma e in Sicilia e poi ancora a Napoli, fino agli anni Sessanta in cui il San Carlino fu sospettato di essere un covo borbonico. La Compagnia si trasferì al teatro Capranica di Roma e al suo ritorno al San Carlino nel 1863 fu assalita dai liberali. Petito fu costretto a rifugiarsi in soffitta per scampare all’assalto.
Intorno al 1865 Petito continuò a scrivere, o meglio “contaminare”, e rappresentare eventi sociali e di cronaca: “Pascariello da pezzente cafone diventa ricco” e “Guard’a voi!“. La prima fu esaltata da Eduardo Scarpetta come testimonianza politica impegnata.
Sono celebri, inoltre, le parodie di opere letterarie come il Faust, La Francesca da Rimini, La Bella Elena, Otello ed opere come “So muorto e m’hanno fatto turnà a nascere” del 1868 in cui si affronta il tema del fenomeno della trasmigrazione dell’anima che, dopo la morte del corpo, si reincarna in altri organismi …
Le opere successive: “La lotteria alfabetica“, dove critica l’industrialismo piemontese, “Tre banche a ‘o treciento pe mille” e “Nu studio ‘e spiritismo pe fa turnà li muorte ‘a l’atu munno” testimoniano, sul finire degli anni Sessanta, l’adesione alle vicende storiche politiche d’Italia.
Antonio Petito fu attore prima che autore: dagli anni della repressione a quelli dell’unificazione riforma la maschera di Pulcinella, trasfigura l’essenza del personaggio, fino a portarla al caricaturale, al grottesco; insomma la parodia e la farsa.
La sera del 24 marzo 1876 Petito morì al teatro San Carlino durante la rappresentazione de “La statua vivente spaventata da Pulcinella“…

di Carlo Fedele

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Iolanda Palladino, uccisa dalla violenza fascista nel 1975… https://www.napoliflash24.it/iolanda-palladino/ https://www.napoliflash24.it/iolanda-palladino/#respond Sat, 19 Jun 2021 17:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=33407 Il voto per il rinnovo del Consiglio comunale di Napoli del 15 giugno 1975, premia fortemente il Partito Comunista. Lo spoglio delle schede relative mostra un netto successo del PCI e un arretramento della Dc. Per tutto il pomeriggio, in via Foria, sede di una sezione missina, i rappresentanti di lista portano notizie sull’andamento degli scrutini. Il loro segretario […]

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Il voto per il rinnovo del Consiglio comunale di Napoli del 15 giugno 1975, premia fortemente il Partito Comunista. Lo spoglio delle schede relative mostra un netto successo del PCI e un arretramento della Dc.
Per tutto il pomeriggio, in via Foria, sede di una sezione missina, i rappresentanti di lista portano notizie sull’andamento degli scrutini. Il loro segretario è stato eletto consigliere comunale, ma forte è il risentimento per la vittoria dei comunisti che si sarebbero posti alla guida della città e che nel frattempo festeggiano anche lungo Via Foria con le auto imbandierate e chiassose.
Alle 22 la sezione Berta chiude e i militanti missini ne escono con diverse bottiglie incendiarie con la determinazione di sfogare la loro rabbia per l’esito delle elezioni. Appostatisi lungo una scalinata che porta nel dedalo dei vicoli adiacenti, da lì lanciano una bottiglia molotov. Una giovane ragazza, Iolanda Palladino, sta tornando a casa dopo un breve giro con la sua auto, quando si trova imbottigliata nel traffico dei festeggiamenti per la vittoria del PCI.
La molotov colpisce il tettuccio della Fiat 500 guidata da Iolanda, di venti anni, mamma casalinga e papà cuoco. La ragazza scende dall’auto, quando le fiamme l’hanno già ricoperta e trasformata in una torcia umana. Quando alcuni passanti la soccorrono e la portano in ospedale, Iolanda è completamente ustionata. Dopo essere stata trasferita al centro ustioni di Roma muore dopo una lunga agonia durata giorni, in cui rimane sempre cosciente.
Su quei gradini il giorno successivo la polizia trova ancora 4 bottiglie incendiarie pronte per l’uso e una tanica contenente mezzo litro di benzina. Sono in tanti assiepati sulle scale, ma solo tre gli arrestati.


Iolanda, diplomata geometra, primo anno di Giurisprudenza, lavoro nei cantieri, qualche comparsa negli spettacoli e il progetto di diventare avvocato, perde la vita nella maniera più atroce per mano criminale.
Quella sera, erano le nove, nel suo appartamento alle spalle della chiesa del Carmine, il telefono rimane bloccato e Jolanda deve dire qualcosa di urgente al suo fidanzato. Esce con gli abiti di casa, camicione e zoccoli, tanto sarebbe ritornata subito. Una corsa in 500 a piazza Garibaldi, poi il ritorno lungo via Foria.
Fa caldo, Iolanda apre il tettuccio. La molotov entra nell’auto. La morte arriva il 21 giugno. Sandro Pertini, presidente della Camera, le rende omaggio all’obitorio di Roma.
Il 24 a Napoli nella basilica si svolgono i funerali della giovane. Tutto il tragitto del corteo funebre è caratterizzato da lanci di confetti bianchi e fiori dai balconi. Durante il percorso del corteo funebre verso il cimitero, alcune migliaia di manifestanti, si dirigono verso via Foria, dove c’è la sede missina a cui appartengono gli assalitori di Iolanda.
Qui il corteo viene caricato duramente dalla polizia nel tentativo di evitare nuovi scontri.  Uno degli assassini scappa ad Ischia. Quando la polizia lo rintraccia, si decide a confessare fin da subito o, come sostiene qualcuno, accetta di fare da capro espiatorio. La Corte d’Assise di Roma condanna i tre imputati a pene dai sei anni e otto mesi ai due anni e dieci mesi.
Le pene sono ridotte in appello e in parte condonate. E la famiglia Palladino dimenticata. Nessun risarcimento dallo Stato. Solo un loculo gra­tis al cimitero.
Fiori bianchi: ai funerali di Iolanda Palladino nella chiesa del Carmine si raccolgono 30 mila persone, studenti, lavoratori, operai di tutte le fabbriche napoletane.
Il 25 aprile 2015, la rete antifascista napoletana all’angolo tra via Foria e via Cesare Rosaroll, appone una lapide: “In memoria di Iolanda Palladino, uccisa dalla violenza fascista”.
Un evento, la morte di Iolanda, tanto doloroso quanto lontano ma non cancellabile, che deve uscire dal riserbo diventando memoria. È un dovere della nostra città quello del ricordo, restituendo alla memoria storica di Napoli un evento tremendo ma che può illuminare la presente e le future generazioni con quei valori che tale tragedia ci impone di praticare.

di Carlo Fedele

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Giacomo Furia, il terzo della “banda” https://www.napoliflash24.it/giacomo-furia-il-terzo-della-banda/ https://www.napoliflash24.it/giacomo-furia-il-terzo-della-banda/#respond Sat, 05 Jun 2021 17:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=32786 Il pizzaiolo tradito nel celebre episodio dell’anello con Sophia Loren ne L’oro di Napoli… L’imbianchino-falsario ne La banda degli onesti… Giacomo Furia era nato in provincia di Caserta, il 2 gennaio 1925. Da ragazzo conosce la compagnia dei De Filippo e da lì comincia la sua carriera di attore. Debutta a teatro il 7 dicembre […]

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Il pizzaiolo tradito nel celebre episodio dell’anello con Sophia Loren ne L’oro di Napoli
L’imbianchino-falsario ne La banda degli onesti
Giacomo Furia era nato in provincia di Caserta, il 2 gennaio 1925. Da ragazzo conosce la compagnia dei De Filippo e da lì comincia la sua carriera di attore.
Debutta a teatro il 7 dicembre 1945 con Eduardo in Napoli milionaria interpretando il ruolo di Peppe ‘o cricco. Esordisce nel cinema nel 1947 sotto la regia di Mario Mattoli in Assunta Spina.

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Si lega in seguito al Principe della risata, Totò, insieme al quale recita ben 17 film.
Partecipa ai famosi Carosello diventando popolarissimo tra i bambini degli anni ’60, partecipa a più di cento film, dalla commedia all’italiana al film in costume, dal filone musicale al film d’autore.
Inconfondibile personaggio di spessore e di ironia, è scomparso il 5 giugno 2015 all’età di 90 anni, a Roma dove era rimasto a vivere.

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Anche Napoli ha il suo Museo della civiltà contadina: “Masseria Luce” https://www.napoliflash24.it/museo-laboratorio-della-civilta-contadina-masseria-luce-2/ https://www.napoliflash24.it/museo-laboratorio-della-civilta-contadina-masseria-luce-2/#respond Wed, 26 May 2021 19:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=28775 Anche Napoli ha il suo Museo della civiltà contadina. Sorge nella splendida cornice della Masseria Luce a S. Pietro a Patierno, bellissima struttura del Settecento, chiamata anche Palazzo Carizzi dal nome del suo fondatore. La struttura stessa è un monumento alla civiltà contadina con le sue possenti mura, i poderosi archi ornamentali e di sostegno, le due […]

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Anche Napoli ha il suo Museo della civiltà contadina. Sorge nella splendida cornice della Masseria Luce a S. Pietro a Patierno, bellissima struttura del Settecento, chiamata anche Palazzo Carizzi dal nome del suo fondatore.
La struttura stessa è un monumento alla civiltà contadina con le sue possenti mura, i poderosi archi ornamentali e di sostegno, le due corti, padronale e contadina, la cappella del XVII secolo, sicuramente antecedente alla masseria, divenuta poi cappella palatina e sepolcro di famiglia, i veroni con le garitte, il giardino, la cantina, i pozzi, il lavatoio ecc.
Il Museo della civiltà contadina nasce grazie all’impegno volontario dei soci dell‘Associazione Culturale Maria SS. della Luce, contadini o figli di contadini, che, ristrutturata la cappella e i locali delle due corti, hanno offerto centinaia d’antichi attrezzi agricoli, custoditi da decenni, che rappresentano la memoria storica del casale e della civiltà contadina nel suo complesso.
I reperti, con l’aiuto di un gruppo di docenti della zona, sono stati catalogati e sistemati nelle sale e si è provveduto anche alla raccolta del materiale documentario.
Il Museo si articola in tre sezioni.
La sezione religiosità popolare dove sono esposti oggetti di antiche arciconfraternite ed associazioni: stendardi, labari, bandiere, mozzette, fasce, medaglioni ecc.; presepi dell’artigianato napoletano, arredi legati alla cappella o in prestito dalla chiesa di S. Pietro e donazioni varie.
Segue la sezione agricoltura con centinaia di attrezzi d’epoca di piccole e grandi dimensioni divisi in sottosezioni. Si possono ammirare centinaia di reperti di piccole e grandi dimensioni, concernenti la semina, la coltivazione e la trasformazione dei prodotti: antichi aratri, crivelli, solcatoi, gioghi, rastrelli, falci a mano, botti, torchi. E poi una falciatrice elettrica, una macchina spoliatrice a mano, una delle prime grandi trebbiatrici, etc.
È allestita poi una casa contadina tipica d’inizio Novecento, con mobilio, suppellettili e attrezzi d’epoca e la sala altri mestieri dove sono stati sistemati antichi attrezzi da calzolaio, falegname, fabbro, pettinatore di canapa ecc.
Infine la sezione documenti con centinaia di foto d’epoca concernenti i matrimoni, le feste, i costumi, i mestieri e ancora, documenti e cartografie in originale o in copia riguardanti i casali agricoli di Napoli oltre ad una piccola biblioteca tematica sempre sui casali.
Il Museo laboratorio della civiltà contadina Masseria Luce è sorto nell’ottobre del 2000 nei locali a piano terra messi a disposizione dal Comune di Napoli che ne è il proprietario.
La “Masseria Luce” si articola in due corti, padronale e contadina. Presenta nella prima: la cappella, la cantina, il pozzo, il lavatoio e lo scalone d’onore ai piani superiori. Nella corte contadina i locali posti sotto gli archi ornamentali e di sostegno aprono al Cellaio e a quelle che erano le stalle e i depositi degli attrezzi e dei prodotti, nonché al giardino.

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Museo Masseria Luce è anche scuola di musica e canto popolare. Si tengono, infatti, ogni anno corsi di Ballo sulla Tammorra e Corsi per imparare a suonare i diversi strumenti musicali legati al canto popolare, in primis la tammorra. Nel museo c’è anche una mostra permanente della tammorra.

Info: 0817389344

di Carlo Fedele

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Faciteve ‘na… grattata https://www.napoliflash24.it/faciteve-na-grattata/ https://www.napoliflash24.it/faciteve-na-grattata/#respond Mon, 24 May 2021 17:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=33417 Come si faceva un tempo a rinfrescare le bevande senza quel… benedetto frigorifero? L’uomo, alla ricerca del freddo conservabile, accatastava neve e ghiaccio… ma a Napoli ovviamente questo era impossibile per la mancanza di… materia prima. La scienza arrivò poi a produrre ghiaccio artificiale, dando vita ad una industria ed all’inevitabile conflitto con i venditori […]

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Come si faceva un tempo a rinfrescare le bevande senza quel… benedetto frigorifero?

L’uomo, alla ricerca del freddo conservabile, accatastava neve e ghiaccio… ma a Napoli ovviamente questo era impossibile per la mancanza di… materia prima.
La scienza arrivò poi a produrre ghiaccio artificiale, dando vita ad una industria ed all’inevitabile conflitto con i venditori di ghiaccio naturale.
Chi non ha nei suoi ricordi l’uomo col carretto che distribuiva le stecche di ghiaccio (anche mezza o un quarto), o le fette d’anguria appoggiate sulla stecca o il macinino del ghiaccio a manovella per la granita, prodotta talvolta grattando la superficie della stecca, la grattachecca dei romani e ‘a grattata di noi napoletani?
Il ghiaccio veniva prodotti in pani lunghi un metro, cm 20×20 di lato, stoccato in paglia di riso che funzionava da impermeabilizzante e non produceva muffe, trasportato su carretti dopo aver avvolto i vari pezzi in pesanti teli di juta, tipo sacchi. La fornitura era rivolta a osterie, rivendite di generi alimentari e privati, si tentava di rinfrescare acqua, bibite varie e prodotti facilmente deperibili sistemandoli dentro un cassone di legno chiuso, rivestito all’interno di fogli zincati, dove su dei listelli di legno venivano poggiati delle stecche di ghiaccio artificiale tagliate a metà.
Il ghiaccio serviva anche a preparare la granita casalinga. Non esisteva il tritaghiaccio ma un pezzo non troppo grosso veniva posto in una tela molto spessa e con il martello lo si frantumava. Posto in un bicchiere o una scodella, vi si versava un pochino di sciroppo di menta o di amarena e la granita era pronta. Non importava se il ghiaccio non era di grana sottile e uniforme. Più era grosso più sarebbe durato.

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Chi vendeva ghiaccio alle famiglie disponeva generalmente di un seminterrato molto fresco e le stecche di ghiaccio venivano sistemate dentro le casse di legno.
Coloro che si recavano ‘a accattà ‘o gghiaccio per non congelarsi le mani, portavano ‘na mappina da casa e se la stecca era intera se la caricavano su una spalla. Immaginiamo quanta artrosi c’era in giro all’epoca…
Ricordo, io piccolino, accompagnato da qualche fratello più grande, quando a casa di ghiaccio ne serviva in abbondanza specie in occasione di qualche festa con parecchi invitati, ci recavamo presso il Ponte di Sant’Antonioa Mergellina dove c’era un rivenditore di ghiaccio. Per fortuna che si abitava a due passi…
In casa il pezzo di ghiaccio acquistato veniva ulteriormente tagliato, lavato e messo direttamente nella vasca da bagno ben pulita e dove comunque era stata adagiata qualche lenzuola. Meloni e bibite riempivano la vasca in attesa di essere consumati freschi. Rotto a pezzi con un martello il ghiaccio riempiva brocche di vino bianco cu ‘a percoca e ulteriormente triturato veniva sparso sui vassoi con le angurie.
E pensare con quale naturalità si effettuavano un tempo queste che oggi per molti sono fatiche… Certo, la comodità, indispensabile del frigo, ma vuoi mettere il sapore particolare di quei tempi e quelle piccole azioni quotidiane che a pensarci ti mettono, a maggior ragione visto l’argomento, ‘o friddo ‘ncuollo?
Faciteve ‘na grattata, ca è meglio… quando fa troppo caldo…

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Tecla Scarano, Artista a tutto tondo https://www.napoliflash24.it/tecla-scarano-artista-tutto-tondo/ https://www.napoliflash24.it/tecla-scarano-artista-tutto-tondo/#respond Thu, 20 May 2021 19:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=34893 Figlia d’arte (il padre, Giovanni Moretti, era tenore di lirica e d’operetta, e la madre, Anna Scarano, proveniente da una famiglia di comici, era molto apprezzata nel teatro d’operetta di fine Ottocento) Tecla Moretti Scarano, nacque a Napoli il 30 agosto 1894. Cantante italiana di caffè-concerto ed attrice drammatica, dovendo seguire i genitori nei loro […]

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Figlia d’arte (il padre, Giovanni Moretti, era tenore di lirica e d’operetta, e la madre, Anna Scarano, proveniente da una famiglia di comici, era molto apprezzata nel teatro d’operetta di fine Ottocento) Tecla Moretti Scarano, nacque a Napoli il 30 agosto 1894.
Cantante italiana di caffè-concerto ed attrice drammatica, dovendo seguire i genitori nei loro frequenti spostamenti nei locali dell’Italia meridionale e centrale, Tecla non riuscì a compiere regolari studi.
Con l’arte nel sangue, già all’età di nove anni, debuttò a Palermo nella parodia di un’eccentrica francese, in occasione della serata in onore degli acclamati duettisti Scarano-Moretti. Il debutto di Tecla, figlia della coppia, fu l’avvenimento della serata.
La vera carriera della Scarano iniziò l’anno dopo, quando si esibì, con il suo numero di canzonettista-prodigio, in uno spettacolo di varietà al popolare Teatro Jovinelli di Roma.
Dopo lunghi anni passati nella Compagnia dei genitori, Tecla decise di iniziare a lavorare in proprio, producendosi come sciantosa e romanziera nei caffè-concerto e nei teatri della città di Napoli.
Cantava il repertorio Elvira Donnarumma e Luisella Viviani, sue contemporanee e maestre.
scarano 2Tecla era dotata, come dicevano le cronache di allora, di “una fresca bellezza, una presenza ed un fascino che la imposero al pubblico napoletano e, poi, a quello di altre città“, ma anche di una bella squillante voce.
La Scarano fu anche un’eccellente attrice; la sua dizione fu chiara, limpida, ricca di mezzi toni: efficaci le pause, i suoi interrogativi, i suoi esclamativi.
Rivelò quel suo originale temperamento drammatico, specialmente in Pupatella di Libero Bovio. Il successo vero e proprio, arrivò, quando entrò a far parte della Compagnia di Raffaele Viviani, all’interno della quale ben presto ricoprì il ruolo di prima donna. Nel dicembre del 1917, interpretò, in ” ‘O vico“, il personaggio di Donna Nunziata, “‘a cagnacavalle“, un’usuraia; in “Tuledo ‘e notte“, nell’ottobre del 1918, fu la prima grande interprete di “Bammenella ‘e copp’e quartiere“, successivamente ripresa da Luisella Viviani. Nel primo dopoguerra (1919-1921), la Scarano interpretò alcuni film (La cantante napoletana; La regina della canzone) e si dedicò al canto incidendo dischi di grande successo. Nel 1930 ritornò a far parte della Compagnia di Viviani, con la quale compì una lunga e trionfale tournée in tutta Italia: nell’edizione del 1931 ne “La morte di Carnevale“, interpretò il personaggio di “‘Ntunetta“; sempre nel 1931, al Trianon di Milano, in “Mastro di forgia“, conquistò il critico Renato Simoni che recensì l’interpretazione della Scarano con queste parole: “Molto bene, con tipica ed appassionata schiettezza, ha recitato la signora Scarano(“Corriere della Sera”, 14 marzo 1931).
In seguito, conosciuto il maestro Langella, che diventerà più tardi suo marito, entrò nella Compagnia Stabile del Teatro Nuovo di Napoli, interpretando riviste di Galdieri, Nelli e Mangini. Tecla Scarano lavorò, inoltre, anche con Eduardo, quando nel 1954 in occasione della riapertura del San Ferdinando, recitò nella farsa “Palummella zompa e vola” di Petito.
Dopo la seconda guerra mondiale riapparve in spettacoli di Rivista, di Varietà, nella Sceneggiata e in alcuni film (Gli ultimi giorni di Pompeo; Zappatore; Il medico dei pazzi; I bambini ci guardano; Bellissima; Pane, amore e gelosia; Totò, Vittorio e la dottoressa; Ieri, oggi e domani).
Nel 1964, al IV Festival di Mosca, ricevette il Nastro d’Argento come attrice non protagonista per la sua interpretazione della fedele domestica di “Filumena Marturano” nel film “Matrimonio all’italiana“.scarano 3
La Scarano, sempre secondo i critici, più che una canzonettista fu una “verace comica di razza: gioviale, piena di natura arguta ed umoristica, e d’altra parte, d’intensa drammaticità“.
Nel 1976 Tecla festeggiò le sue nozze di diamante con il palcoscenico, recitando nello spettacolo “‘E figlie“, al teatro San Ferdinando di Napoli. Il telegramma che Eduardo spedì alla festeggiata, in tale occasione, rivela la sua stima e l’ammirazione per questa grande ed intensa attrice (“Tecla cara, sono felice che tu abbia celebrato le nozze di diamante con il teatro proprio nel mio San Ferdinando. Questo mi rende ancora più gradito il tuo successo. Ti invio congratulazioni vivissime augurando a te e alla tua compagnia sempre grandi successi in Italia come all’estero, con amicizia fraterna, tuo Eduardo“).
Artista dal temperamento dinamico ed esuberante, Tecla fu attivissima anche alla radio (con rubriche personali, spesso con Agostino Salvietti) e alla televisione per cui interpretò una coloratissima efficace “Zì Rosa” nel romanzo sceneggiato “L’alfiere” di Anton Giulio Majano (1956). La sua ultima apparizione televisiva fu nel film “Diario di un giudice” del 1978.
Tecla Scarano morì a Napoli il 22 dicembre del 1978.

di Carlo Fedele

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Lo scugnizzo Raffaele Viviani (6 ed ultima parte) https://www.napoliflash24.it/lo-scugnizzo-raffaele-viviani-6-ed-ultima-parte/ https://www.napoliflash24.it/lo-scugnizzo-raffaele-viviani-6-ed-ultima-parte/#comments Wed, 19 May 2021 19:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=35141 L’autobiografia Raffaele Viviani inizia a scrivere il libro delle sue memorie Dalla vita alle scene nel 1928, all’età di quarant’anni, in un momento di grande successo di questo genere letterario. “Questo libro parla di come io nacqui, di come io pervenni, di come io ho sofferto e a prezzo di quali sforzi mi conquistai la […]

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L’autobiografia
Raffaele Viviani inizia a scrivere il libro delle sue memorie Dalla vita alle scene nel 1928, all’età di quarant’anni, in un momento di grande successo di questo genere letterario.
“Questo libro parla di come io nacqui, di come io pervenni, di come io ho sofferto e a prezzo di quali sforzi mi conquistai la notorietà”. (R. VIVIANI, Dalla vita alle scene, Napoli, Guida editori, 1988, p. 9.)

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Vecchia e nuova Piedigrotta nei ricordi di Raffaele Viviani:
La prima sensazione della festa di Piedigrotta mi è rimasta fissa nel ricordo. Ero bambino, potevo avere un cinque anni, e già da poco cantavo al teatro dei “pupi” in Porta San Gennaro. La sera, tardi, poiché ero solito addormentarmi dopo il “mio numero” ancora con gli abiti da marionetta, che indossavo, il capo chino sulla spalla, seduto su un cassone, mio padre per non svegliarmi mi faceva deporre in un grosso cesto che serviva a portare la cena da casa e mi faceva trasportare sul capo da un suo scritturato, un tal Michele Migliatico.
Quella sera di Piedigrotta, tutto rannicchiato in quello strano vagone letto, ricordo che fui improvvisamente svegliato da un insolito frastuono, una gazzarra imprevista: suoni di “trummette”, voci, botte. Non ero abituato e mi misi a piangere, spaventato. Che accadeva intorno a me? Niente: tutto quel clamore indicava che era una notte di festa, la più incredibile delle feste. Volli scendere dalla cesta e fare il tratto dal teatro a casa a piedi, beato e meravigliato, trotterellando a fianco di mio padre.
Via Foria era come incendiata dai bagliori delle più avvampanti luminarie. Una marea di gente affollava la strada: tutti erano vestiti di curiose fogge e portavano sul capo berretti che non avevo visto mai ed ogni tanto davano fiato ad uno strano arnese ad imbuto che stringevano nelle destre e ne veniva fuori un latrato che a me sembrava sinistro. Altri soffiano inaspettatamente e veniva fuori dalla loro bocca una lingua lunghissima di carta: la lingua di Menelick; altri ancora gettavano piogge di coriandoli e nastrini di carta come per avvolgere l’aria in nodi impossibili. E quanto ben di Dio lungo i marciapiedi: maruzzari con i loro trofei a forma di cetra floreale e le loro pignatte di rame lucente, maccarunari con le loro caldaie fumanti e uomini i quali mangiavano avidamente grossi piatti di maccheroni, che scivolando come bianchi serpentelli nelle bocche semichiuse, sibilavano allegramente, nel risucchio della saliva. E poi fruttivendoli, venditori di fichi d’India, che gridavano: tre colpi un soldo ed il cliente s’avvicinava; era fornito d’un grosso coltello che serviva, a distanza, per “appizzare” a terra, il frutto; se l’operazione riusciva il fico d’India era mangiato. Spesse volte però, qualche ragazzetto furbo faceva distrarre il venditore e in un “batter d’occhi” “appizzava” il frutto da vicino.
…Piansi, ricordo, amaramente, quando mio padre mi costrinse a rincasare quella notte, e per più giorni, rimasi ‘nguttuso, avrei voluto andare pure io a Piedigrotta.
Ci andai già ragazzino, in compagnia di alcuni amici. Eravamo decisi quella notte a far baldoria, coscienti del nostro diritto a divertirci. Armatici di “trummette” e di tutti gli altri strumenti piedigrotteschi, rubati per via ai passanti, muovemmo verso la Riviera, dove più impazziva la festa, ebbri di gettarci nel turbine di quella notte incredibile. Tutto è permesso a Piedigrotta. Questo era il nostro grido.

Miseria_e_nobiltà
Già più adolescente, e per seguire compagni più scavezzacolli, taluni dei quali veri e propri “scippatori”, cioè ladruncoli di frutta e di fazzoletti, in occasione di Piedigrotta, mi recavo con essi al Ponte di Casanova per la “petriata”.
Era una sorta di finta battaglia che avveniva fra due squadre: quella del Borgo Loreto e quella di Borgo Sant’Antonio, alla quale appartenevo: battaglia a sassi, che venivano lanciati, dietro l’ordine del caposquadra, a mezzo di rudimentali fionde, dette “giunchee”, di canapa intrecciata. I “guerrieri” erano vestiti di tutto punto: armi di latta, cimieri di stagno, decorazioni di carta. Purtroppo questo gioco che aveva sempre un suo pubblico fedele, tanto che un famoso organizzatore di carri voleva portare il “numero” davanti alla Commissione dei festeggiamenti, terminava sempre con qualche ferito vero. Una volta, il ferito fui io. Una pietra mi aveva colpito, al naso, rompendomi il “setto” (ecco perché il mio naso è ora di forma sui generis). Mio padre, severissimo, accorso sul posto, mi afferrò per un orecchio e dal Ponte di Casanova a casa nostra, al Vico Finale: ogni passo uno schiaffo, noncurante del sangue che mi colava copioso e dei miei pianti che assordavano l’aria più dei suoni strazianti delle trombette.
Da giovanotto, il mio interesse per Piedigrotta fu, dirò, più artistico e più di una volta fui fra i cantori sui carri famosi che erano soliti sfilare fra la calca di popolo. Ma il ricordo di quel “mazziatone” paterno non mi abbandonò mai. Ed anche adulto, rincasando all’alba, dopo la festa fui sempre preso dalla nostalgia di mio padre.
Com’erano belli e festosi i carri di Piedigrotta. Anche le cavalcate, che imponenza! Quella di Carlo d’Angiò con tutto il seguito: cavalli bianchi, con gualdrappe reali e centinaia di valletti. La cavalcata coloniale era anch’essa di una fantasia incredibile. Il re negro, piumato, e i mori, dei bruttissimi ceffi nostrani che la gente, al passaggio, riconosceva di sotto le barbe ed il trucco e chiamava per nome: “Viciè…” “Aità…”.
La giuria era a piazza Sannazzaro, su un palco costellato da lampadine tricolori, pronta a giudicare, mentre dal mare i fuochi pirotecnici illuminavano centinaia di barche, ciascuna con una sua orchestrina a bordo e la sua comitiva. Non si sapeva più dove volgere lo sguardo, si era attoniti ad ammirare ogni cosa e si respirava la gioia di vivere, quella sera. Il mio popolo era come me, felice.

Sentiva la sua festa.
Sta festa ‘o ssa
nasce e more ccà!
Chi ‘a vo’ rifà
nun ‘a po’ imità!
È stesso ‘o popolo che ‘a da,
e chistu popolo sta ccà,
e a nisciun’atu pizzo ‘e munno a’ può truvà!

Ci sono tornato ad una festa di popolo, a quella della Madonna del Carmine, questo anno. C’erano le bancarelle come una volta, le arcate luminose; la folla gremiva la vasta piazza del Mercato, sempre. Ho visto gli stessi fuochi di prima e l’incendio del Campanile di fra Nuvolo. Ma la gioia non ho respirato, né l’ebbrezza pagana della plebe nella sua esaltazione divina. La gente camminava sulle macerie. Ad ogni passo, ciascuno le sentiva sotto le scarpe e doveva stare accorto per non cadere. Le facce gialle, rosse, verdi, illuminate dai fuochi artificiali erano ferme a guardare composte e pensose, come se lo spettacolo non fosse tripudio. Tra la gente e la festa, era passata la guerra con i suoi bombardamenti, con le sue rovine, con i suoi morti.

di Carlo Fedele

Per la prima parte clicca qui > http://www.napoliflash24.it/lo-scugnizzo-raffaele-viviani-1a-parte/

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Lo scugnizzo Raffaele Viviani (5 parte) https://www.napoliflash24.it/lo-scugnizzo-raffaele-viviani-5-parte/ https://www.napoliflash24.it/lo-scugnizzo-raffaele-viviani-5-parte/#comments Tue, 18 May 2021 19:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=35126 Viviani racconta Napoli e la sua gente Viviani liberò il suo popolo da quello stereotipo che lo vedeva avvezzo al riso, al canto, alla bonarietà e alla solarità; come se la sofferenza, la disperazione, il dramma fossero elementi estranei alla sua vita. Tutt’altro. Napoli, quella vera, non quella dei luoghi comuni, si trovava ad affrontare […]

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Viviani racconta Napoli e la sua gente

Viviani liberò il suo popolo da quello stereotipo che lo vedeva avvezzo al riso, al canto, alla bonarietà e alla solarità; come se la sofferenza, la disperazione, il dramma fossero elementi estranei alla sua vita. Tutt’altro. Napoli, quella vera, non quella dei luoghi comuni, si trovava ad affrontare problemi gravi, e contro la precarietà doveva combattere la sua lotta quotidiana e cozzare contro una situazione economica non facile soprattutto negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Il popolo di Viviani tira a campare spesso con espedienti; si inventa mille mestieri pur di non morire di fame; ma, nonostante ciò, i personaggi di Viviani sono pervasi da un sano ottimismo, che non porta alla disperazione, ma ad una cupa rassegnazione che diventa la forza per andare avanti e poter ironizzare sulla sorte quasi sempre avversa. I personaggi che affollano le strade ed i vicoli di Napoli sono tanti; disoccupati, prostitute, venditori ambulanti, guappi veri e finti, ladri; sono tutti diseredati che devono trovare il modo per sfamarsi e sopravvivere. I disoccupati sono tanti, “cresceno comm’ ‘e microbe”, ed ecco che chi ha un lavoro, pur ricevendo una paga modesta, non si lamenta; tanti altri sarebbero pronti a sostituirlo per quella paga da fame. Ecco perché la Napoli di Viviani pullula di ladruncoli, perciò rubare diventa una soluzione per potersi sostenere anche perché contro il destino avverso nulla si può fare. Ma questa è la barriera che Viviani vuole abbattere, il finto pietismo e la rassegnazione che nasce dal qualunquismo. Ecco che Viviani dà la parola alla classe operaia, che si è vista promettere un’industrializzazione mai avvenuta, ma continua a lottare, con forza e senza mai abbandonare l’umorismo. E’ stupenda la poesia: “‘A canzona d’ ‘a fatica”: c’è la consapevolezza, da parte dei personaggi, di lavorare per l’altrui benessere, senza però poter raggiungere il proprio.
I muratori, ironizzando, affermano:
Fravecanno ‘a casa ‘o prossimo,
sulo ‘a nostra sta ‘mprugetto:
‘o ‘ngigniere contr’all’architetto
pecchè ‘appaldo nun se sape a chi ‘hann’ a da’.
Nelle sue poesie è cantata la gente umile che lotta per sopravvivere in una società ostile, ma non si dispera, perché è una lotta che conduce nel segno della solidarietà. Le donne di Viviani, poi, sono un punto focale nella vita della strada, semplici, sagge, abituate ad affrontare ogni sorta di problemi, e a tirare fuori le unghie per difendere i propri uomini.
E’ il caso di Graziella, la protagonista della poesia: Canzone ‘e sotto ‘o carcere, che, fidanzata di un recluso, comunica al suo uomo, servendosi di una cantante, gli sviluppi delle indagini, cantando sotto le inferriate della sua cella. Queste sono donne forti che cercano l’uomo protettivo, forte, ma che sia sensibile; donne che all’occorrenza sanno come tenere a bada gli uomini che cercano di allungare le mani.

Mastro_di_Forgia
“La mia musa è facile e scorrevole. Nelle mie poesie non metto niente di più e niente di meno del necessario. Mi piace il quadro disegnato con poche pennellate, ma precise e fluide come la nostra lingua, parlata, senza che il verso risenta del tormento. Sono, direi così, un “poeta pittore”, perché mi piace fare la poesia colorita. A pennellate vivide, come chi descrivendo la colorisca. E ancora: Io non sono un letterato, sono un sensibile, un istintivo; attingo la materia grezza dalla vita, poi la plasmo, la limo e ne faccio opere teatrali, soffermandomi su quanto mi è rimasto impresso, vivendo la mia infanzia a contatto della folla, della folla varia, spicciola, proteiforme, multanime, pittoresca della mia terra di sole”.
La morte di Raffaele Viviani fu annunciata dai microfoni della radio da Silvio D’Amico; lui se ne andava ma il suo ricordo, vivo e pulsante, restava nella mente di chi lo aveva amato. Sui giornali si leggeva: Un grande attore scomparso, L’arte napoletana in lutto, E’ morto Raffaele Viviani, a testimonianza della perdita di un grande attore-autore di quel tempo “lui se ne va – scriveva Il Mattino – e noi vogliamo tenerci nell’intimo il ricordo del suo volto mezzo plebeo e mezzo nobile, della sua voce soave, o appassionata, o aspra, del suo gestire che punteggiava meravigliosamente le frasi, alla luce della ribalta. Il suo posto rimarrà vuoto forse per troppo tempo; forse, anche per sempre”.

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Questa stessa sensazione la provava Mario Stefanile, che amò ricordare Viviani nell’ultima notte in cui lo vide recitare in redazione: “Fu una notte d’estate l’ultima volta che Raffaele Viviani salì in redazione e, nella stanza di Nazzaro, improvvisamente troncato a mezzo un discorso sul teatro, cominciò ad inventare le mille creature di Napoli, rifacendone le voci con la sua voce: roca e disperata, arsa e tetra, furente e appassionata. Nazzaro si stringeva in sé come in un suo freddo subitaneo, io chiudevo gli occhi e avrei voluto anche il cuore chiudere, qualcuno scappava via dalla stanza, certo per non scoppiare in singhiozzi: e Raffaele Viviani, snodandosi dalla sua sedia, movendo intorno il capo come un cieco che cerca il sole o un agonizzante che chiede l’aria che gli manca, s’alzava in piedi, a braccia ciondoloni lungo i fianchi sempre più alto, sempre più antico, sempre più leggendario era nella notte d’estate il venditore d’olive, il venditore di gamberi, il venditore di cocomeri, era Napoli quando si alza nelle notti della sua vita e canta frutti e cibi, calma la fame degli abitanti con la sua stessa nenia di tremila anni fa, avvia al sonno le creature dei vicoli e dei larghi, delle calate e dei fondaci. Poi, s’interruppe di colpo, si guardò intorno smarrito, rise, se ne andò via, rigido ed impettito, rasentando le pareti scomparve. Cominciava così ad andar via per sempre, cantando con la sua voce bruciata e straziante di dolcezza, lasciandoci nello scrigno della memoria, in un enorme silenzio di notte napoletana, le voci delle mille creature che di volta in volta egli fu, e restando in ognuna sé stesso, l’uccello di fuoco del nostro teatro, del teatro di ogni tempo e di ogni terra, il miracolo in terra di un’esplosione di vita che non si rinnoverà mai più”.

di Carlo Fedele

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Lo scugnizzo Raffaele Viviani (4a parte) https://www.napoliflash24.it/lo-scugnizzo-raffaele-viviani-4a-parte/ https://www.napoliflash24.it/lo-scugnizzo-raffaele-viviani-4a-parte/#comments Mon, 17 May 2021 19:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=35083 Viviani e Pulcinella Viviani è stato anche la maschera di Pulcinella. Con la morte di Antonio Petito nel 1876 questa maschera continuò ad essere un grande mito di identificazione regionale, ma rimase confinata sempre più nei teatri di terz’ordine, frequentati quasi esclusivamente da un pubblico proletario. Nel Novecento il teatro di Pulcinella attira l’interesse e […]

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Viviani e Pulcinella

Viviani è stato anche la maschera di Pulcinella.
Con la morte di Antonio Petito nel 1876 questa maschera continuò ad essere un grande mito di identificazione regionale, ma rimase confinata sempre più nei teatri di terz’ordine, frequentati quasi esclusivamente da un pubblico proletario.
Nel Novecento il teatro di Pulcinella attira l’interesse e la riflessione di alcuni artisti, Petrolini e, soprattutto, Raffaele Viviani e Eduardo De Filippo.
Le poche pulcinellate che essi compongono sono più commedie su Pulcinella che commedie di Pulcinella.
La prima esperienza di teatro di Raffaele Viviani con la maschera di Pulcinella è costituita dalla commedia “Siamo tutti fratelli“, tratta da una lunga commedia di Antonio Petito intitolata “So muorto e m’hanno fatto turnà a nascere“.
Viviani rielabora in maniera innovativa alcuni tratti fondamentali del linguaggio pulcinellesco tradizionale, presenta un Pulcinella sognante: costretto a muoversi in un mondo di opportunisti, passa agli occhi di tutti come lo sciocco di sempre, manovrabile a piacimento dai furbi disonesti.
Sicuramente l’interesse maggiore di queste commedie è costituito dalla sua capacità di far diventare teatro vivo (e non semplicemente, com’era accaduto qualche volta nel teatro di Petito, comica rappresentazione) non tanto la maschera, quanto i suoi interpreti, con le loro storie di sofferenze e di sconfitte.
L’ombra di Pulcinella“, commedia in due atti, andò in scena, con successo, per la prima volta il 20 settembre 1933, al Teatro Odeon di Milano; in seguito fu rappresentata al Teatro Goldoni di Venezia.
L’idea centrale del dramma è la figura di un vecchio attore, Vicienzo Santangelo, che vede ogni giorno di più naufragare la sua povera compagnia di comici popolari, costretta a recitare nelle baracche o addirittura nelle piazze dei paesi quando c’è la fiera. Egli assiste con malinconia alla scomparsa di Pulcinella dalla scena. È malato e deve recitare per dare pane alla moglie ed al figlio, per dare ancora vita alla maschera che adora come un mito.
Scugnizzo – Via Partenope” è un atto unico, scritto e messo in scena per la prima volta nel 1918 (Viviani vi interpretava ben tre ruoli). Il lavoro fu rappresentato successivamente nel 1921 e nel 1924. In questo atto unico dominano due temi che ricorrono spesso nel teatro di Raffaele Viviani: l’emarginazione e la miseria.
La commedia è ambientata nella zona circostante l’Hotel Excelsior. Tra i venti personaggi che vi compaiono emerge la figura dello scugnizzo, uno dei tipi più significativi ed originali del teatro di Viviani.
In questo atto unico lo scugnizzo è povero ed emarginato, ma non si rassegna al suo stato, combatte e procede con forza e coraggio nel suo cammino di protesta sociale.

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Lo scugnizzo è un po’ il padrone di quella zona della città che i ricchi non frequentano, provoca e prende in giro la signuramma, che partecipa alla festa che si svolge nell’albergo. Ed è agli ospiti dell’Hotel, ai ricchi che è rivolta la protesta dello scugnizzo (Neh, munziù! È ghiuta ‘a zoccola int’ ‘o ragù… Eh, chi tanto e chi niente) e la sua presenza è un’aperta denuncia verso la società che è lì, immobile a non recepire nulla.
La musica dei ciechi“, questo testo teatrale, fu rappresentato da Viviani per la prima volta a Roma nel 1928 ottenendo un grande successo.
La musica dei ciechi” è un vero capolavoro, rappresenta sicuramente una fase drammaturgica di grande maturazione e di piena creatività, mescolando, con grande armonia, forma e contenuto, prosa e musica, momenti di forte drammaticità e di pacato dolore a momenti di ironia sofferta e di chiara comicità.
Questo contrasto rappresenta appunto l’originalità del teatro di Viviani.
Domina in quest’atto unico uno dei temi che ricorrono spesso nel teatro di Raffale Viviani: l’emarginazione.
Infatti, i protagonisti vivono in uno stato di totale emarginazione e povertà.
La commedia è ambientata in un angolo del borgo Marinari, nel rione di Santa Lucia, dove sono raccolti e si esibiscono i suonatori ciechi, un’orchestrina girovaga e mendicante che alterna a celebri canzoni napoletane, teneri valzer di operetta.
L’ultimo scugnizzo” è una commedia in tre atti rappresentata da Viviani per la prima volta il 16 dicembre 1932 al teatro Piccinni di Bari (Viviani interpretava il ruolo di ‘Ntonio e Luisella Viviani quello di ‘Nnarella).
In questa commedia dominano due temi che ricorrono spesso nel teatro di Raffaele Viviani: la miseria e l’emarginazione.
La scena del primo atto della commedia è ambientata in un interno: lo studio dell’avvocato Razzulli. Il secondo atto si svolge all’esterno, nei pressi di un basso, nel vico Lepri ai Ventaglieri. L’ultimo atto è di nuovo in un interno: lo studietto di ‘Ntonio, in casa Razzulli.
Tra i ventitré personaggi che vi compaiono emerge il personaggio principale: ‘Ntonio Esposito, l’ultimo scugnizzo.
‘Ntonio vuole cambiare vita, desidera abbandonare il suo passato precario, è deciso a superarlo, ma non a rifiutarlo; tenta di procacciarsi un lavoro onesto per vivere dignitosamente e per offrire al figlio, che sta per nascere, una famiglia ed un’esistenza felice. Ma l’annuncio della morte del nascituro recide il filo della speranza e della rinascita di ‘Ntonio. Nonostante i suoi sforzi di inserirsi nel mondo del lavoro, ‘Ntonio comprende di essere diverso dagli altri, e ricade nel suo ruolo di emarginato senza alcuna speranza di cambiamento. Ecco che i concetti di scugnizzo, di emarginato e di povero si identificano.
L’ultimo scugnizzo è uno dei testi più famosi del teatro di Viviani che tocca la maggiore intensità nella Rumba degli scugnizzi, brano musicale notissimo.
Nel 1938 fu realizzata anche una riduzione cinematografica della commedia, Il personaggio di ‘Ntonio fu interpretato dallo stesso Viviani.

di Carlo Fedele

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Lo scugnizzo Raffaele Viviani (3a parte) https://www.napoliflash24.it/lo-scugnizzo-raffaele-viviani-3a-parte/ https://www.napoliflash24.it/lo-scugnizzo-raffaele-viviani-3a-parte/#comments Sun, 16 May 2021 19:00:00 +0000 http://www.napoliflash24.it/?p=35078 Viviani ed il teatro realistico La chiusura dei teatri di Varietà imposta dal governo dopo la disfatta di Caporetto nel novembre del 1917, costrinse tanti attori famosi a cercare nuovi spazi ed a crearsi un nuovo repertorio. Naturalmente, anche Viviani, grande esponente di quel mondo teatrale, si trovò di fronte al problema di una svolta […]

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Viviani ed il teatro realistico
La chiusura dei teatri di Varietà imposta dal governo dopo la disfatta di Caporetto nel novembre del 1917, costrinse tanti attori famosi a cercare nuovi spazi ed a crearsi un nuovo repertorio. Naturalmente, anche Viviani, grande esponente di quel mondo teatrale, si trovò di fronte al problema di una svolta e ne approfittò per realizzare qualcosa a cui pensava da tempo: il passaggio dal Varietà alla Commedia.
Viviani fondò una propria Compagnia, scegliendosi come compagni altri attori del Varietà, di cui fece parte anche Luisella (nella foto), la sorella, con la quale debuttò il 27 dicembre 1917, al Teatro Umberto di Napoli, mettendo in scena “‘O vico“, commedia in un atto in versi, prosa e musica, composta e diretta dallo stesso Raffaele Viviani.
Questo atto unico rappresenta il primo lavoro teatrale in cui Viviani tenta di legare insieme più personaggi tipici, già sperimentati, dal suo repertorio.
Per realizzare questo passaggio dal numero all’atto unico, Viviani pensò di far rivivere di vita collettiva quei tipi che egli aveva già portato isolatamente sulla scena, di farli comunicare tra loro in un contesto capace di contenerne due, tre, anche quattro; insomma, diede loro vita drammatica in un’opera finita ed organica, fondendo, in mondo straordinario, la prosa con il canto ed i versi.
Diversamente da quello che si verificava nel mondo della Commedia dell’Arte, dove i singoli particolari erano affidati al capriccio degli attori, Viviani eliminò dai suoi spettacoli ogni forma d’improvvisazione; pertanto, la prosa, i versi e la musica erano rigorosa scrittura, in pratica un teatro pensato e fissato sulla carta che diventava testo.
Raffaele Viviani anche se non ha scritto nessun’opera teorica per svelare i criteri della sua drammaturgia, tuttavia ha dedicato un intero capitolo (Come scrivo il mio teatro) della sua Autobiografia al suo “metodo di scrivere teatro”:
“Non mi fisso sempre una trama, mi fisso l’ambiente; scelgo i personaggi più comuni a quest’ambiente e li faccio vivere come in questo ambiente vivono, li faccio parlare come li ho sentiti parlare. Man mano che le figure acquistano corpo e la macchietta diventa tipo, porto la mia fantasia per la via più logica da seguire, a seconda dei loro caratteri, dell’atmosfera creata; le figure, che man mano balzano vive dall’insieme del quadro, pigliano forma di veri caratteri, le porto decisamente in avanti, in primo piano e le distacco dalle figure minori che mi servono poi unicamente per dare sfondo e colore e tra questi personaggi, già definiti in pochi tocchi, io vi creo la favola. Da questo momento il lavoro comincia ad elaborarsi nella mia mente e, portandolo avanti, cerco di far camminare di pari passo lo scrittore e l’uomo di teatro e spesso l’attore non è estraneo alla passeggiata, poiché viene a portare la sua acquisita esperienza nel procedimento di essa, e solo alla metà del primo atto comincio a pensare alla chiusa più logica per il taglio finale”. (R. VIVIANI, Dalla vita alle scene, Napoli, Guida editori, 1988, p. 125.)

Luisella
E, soprattutto, l’autore-attore napoletano ci tiene a sottolineare che il suo è un teatro realistico, le situazioni rappresentate sono vere ed i personaggi dei suoi drammi sono creature vive e non letterarie:
“Insomma, io non sono un “letterato”, sono un sensibile, un istintivo; attingo la materia grezza dalla vita, poi la plasmo, la limo e ne faccio opere teatrali, soffermandomi su quanto mi è rimasto impresso, vivendo la mia infanzia a contatto della folla, della folla varia, spicciola, proteiforme, multanime, pittoresca della mia terra di sole. Il mio teatro è fatto di suoni, di voci, di canti, sempre gaio e nostalgico, festoso e melanconico, non di intrecci e di problemi centrali. Vivifico le mie vicende sceniche sempre con qualche cosa di puramente mio, di mio inconsciamente mio, se volete, e riuscendo a non rassomigliare a nessuno, penso che questo è il mio maggior merito. Le cose mie non possono rassomigliare a quelle degli altri, perché fortunatamente le cose degli altri io le ignoro. Mai come in questo caso: Santa ignoranza! ” (R. VIVIANI, Dalla vita alle scene, cit., p. 127)
Nella vastissima produzione teatrale di Raffaele Viviani, oltre una cinquantina di opere, emerge tutto il quotidiano: la disoccupazione, la miseria, l’emigrazione, l’emarginazione, la questione femminile.
Queste tematiche spesso si intrecciano anche in uno stesso testo e la tecnica, assolutamente perfetta, usata dall’autore per innestare tra loro temi così complessi e diversi è il segno indiscutibile della grandezza e dell’originalità artistica di Raffaele Viviani.
Egli porta in scena l’amarezza e la tenerezza, la sofferenza e l’allucinazione, l’ingenuità e la furbizia, l’illusione e la delusione.
La produzione teatrale di Viviani è il realismo della vita partenopea.
Dunque, Raffaele Viviani – come scrive Vittorio Viviani – storicizza la vita di Napoli.
La vera protagonista della sua opera è Napoli, una realtà storica e ambientale, vista con un occhio particolare, di chi guarda alle pene e alle miserie altrui senza patetismo, senza compiacimenti; bensì con la saggezza di chi vuole – come scrive lo stesso Viviani nell’Autobiografia – esaltare il buono e correggere il cattivo.
Insomma, Viviani porta in scena la città di Napoli, l’interpreta e la fa crescere progressivamente.
Raffaele Viviani, nella sua opera, realizza una stupenda fusione musica-testo, al punto che può essere collocato nella migliore drammaturgia europea del primo Novecento. La grande originalità del teatro vivianeo è data dalla presenza e dalla funzione della musica. Infatti, nella sua opera la musica ha un’importanza assoluta ed una funzione insostituibile: attraverso i canti l’autore crea subito l’atmosfera voluta, imprigiona lo spettatore, lo rapisce.
Alla musica, alla canzone spetta il compito di caratterizzare il personaggio, ad ognuno la sua “arietta”, il suo ritornello.
Raffaele Viviani pur non essendo in grado di fissare sul pentagramma il suo pensiero, pur non essendo in possesso di una competenza musicale tecnica è autore delle musiche. È lo stesso Viviani nell’Autobiografia a rivelarci che le musiche se le faceva scrivere, dopo averle canticchiate al maestro.
Viviani produsse circa 1300 pagine trascritte di musica per canto e pianoforte. Suoi collaboratori principali furono Enrico Cannio e Eduardo Lanzetta. La prestazione musicale di questi suoi collaboratori consisteva nella trascrizione della parte melodica del brano e nel conseguente arrangiamento di esso.

‘O vico andò in scena per la prima volta il 27 dicembre 1917 al Teatro Umberto di Napoli (Viviani vi interpretava ben tre ruoli: l’Acquaiuolo, il Guappo innamorato e lo Spazzino).
In questo atto unico del 1917 domina un tema che ricorre spesso nel teatro di Raffaele Viviani: la disoccupazione. Questo tema, già presente nelle prime macchiette vivianee (‘O Mariunciello), appare chiaro in ‘O vico, dove si contrappongono personaggi di diverse fasce sociali, ma tutti oppressi dal problema della ricerca di un posto di lavoro. Viene fuori l’immagine di una Napoli sofferente, povera, amara e misera. Qui il realismo di Viviani è indiscutibilmente crudo.
La commedia è ambientata in un vicolo napoletano, con la sua miseria ed i suoi bassi. Vi compaiono dodici personaggi, che sono solo alcuni dei tipi più significativi ed originali del teatro di Viviani: Mastu Rafele, il ciabattino in miseria, con la moglie Rachele, giocatrice del lotto; i due innamorati (Prezzetella, ‘a capera e l’Acquaiuolo) che sperano un giorno di potersi sposare; Donna Nunziata, ‘a cagnacavalle; Totore, ‘o guappo ‘nnammurato; lo Spazzino e Ferdinando, ‘o cane ‘e presa.

di Carlo Fedele

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